IL PERIODO DEI TORBIDI (1598-1613)– PARTE I

PROTAGONISTI:

  • Zarato russo: zar Fëdor I Rjurikovič, zar Boris I Godunov, zar Fëdor II Godunov, zarevič Dmitrij.
  • Confederazione polaccolituana: Falso Dmitrij I, Sigismondo III Vasa di Polonia, Marina Mniszchówna “Mniszech”.

GLI ULTIMI RJURIKIDI E BORIS GODUNOV:

1591: nel monastero di Uglič, a nord di Mosca, Dmitrij, il più giovane figlio del defunto zar Ivan IV detto “il Terribile”, fu ritrovato morto. Secondo le notizie dell’epoca, Dmitrij stava giocando con altri bambini a svajka, un gioco russo che prevede il lancio dei coltelli per terra, quando fu colpito da un attacco epilettico che l’avrebbe fatto cadere sulle punte dei coltelli. Il processo che ne seguì condusse centinaia di testimoni davanti ai giudici di Mosca. Ma già nelle case dei contadini si parlava di omicidio, e del probabile responsabile: il boiardo Boris Godunov, padre della moglie dell’allora zar Fëdor I, fratello mentalmente invalido dello zarevič assassinato e sovrano senza eredi. Godunov era a capo della reggenza che governava la Russia al posto dello Zar, più concentrato a suonare le campane delle chiese del Cremlino. Con morte di Dmitrij e, nel 1598, con quella di Fëdor, rimasto senza eredi, si estinse la dinastia dei Rjurikidi che, in varie forme, aveva governato gli Stati russi ben prima della cristianizzazione della Russia.

Già nella reggenza, Boris aveva proseguito le politiche commerciali di Ivan IV, il quale era riuscito ad aprire il porto di Arcangelo ai mercanti inglesi, e a recuperare alcuni insediamenti al confine col Regno svedese. In politica interna, proseguì la colonizzazione della Siberia. Al suo fianco ebbe sempre l’appoggio del figlio Fëdor. Inoltre, Boris emanò una legge che impediva il trasferimento dei servi da un padrone all’altro, decisione che portò a un rafforzamento della servitù della gleba. Alla morte dell’ultimo Rjurikide, con l’appoggio del Patriarca moscovita e di altri boiardi, Boris riuscì a farsi riconoscere il titolo di zar e fu incoronato nella Cattedrale della Dormizione di Mosca. Divenuto zar, Boris invitò molti studiosi dall’Europa occidentale, e permise la costruzione delle prime chiese non ortodosse in Russia.

LA CARESTIA E IL “RITORNO” DI DMITRIJ:

Nei primi anni di regno, Boris riuscì a guadagnare la fiducia del popolo e il favore dei boiardi. Ma quando nel 1601 ebbe inizio una carestia, dovuta alle abbondanti piogge che lievitarono il prezzo del pane di cento volte, il popolo cominciò a credere in una punizione divina mandata da Dio contro lo zaricida. Le condizioni di salute di Boris peggiorarono, e si aggravarono ancora di più quando gli giunse voce che Dmitrij era “tornato dai morti”. O meglio, che a morire a Uglič anni prima non era stato lo zarevič, ma un altro Dmitrij. Il vero Dmitrij era riuscito a sfuggire, si era fatto monaco e aveva trovato rifugio presso il re di Polonia Sigismondo III. Il risorto principe si era convertito al Cattolicesimo ed era in procinto di sposarsi con una nobile polacca e reclamare il trono. Boris inviò subito dei messi alla ricerca di informazioni su questo pretendente, dimostrando la sua falsità, e inviò il resoconto a Sigismondo, il quale lo ignorò. Anzi, dichiarò guerra alla Russia per porre Dmitrij sul trono di Russia.

Nei primi mesi del 1605, Dmitrij prese in moglie l’ambiziosa Marina Mniszchówna, figlia di un magnate polacco a cui Dmitrij promise il dominio su alcuni territori russi al confine con la Confederazione. Si diresse, dunque, verso Mosca, dove incontrò, segretamente e a pochi chilometri da Mosca, la madre del Dmitrij ucciso a Uglič. Quando Boris la interrogò la donna pochi giorni dopo, essa negò l’incontro. Intanto nella capitale la situazione precipitò: i contadini assediavano il Cremlino guidati dalla fame, e Boris morì d’attacco cardiaco nell’aprile 1605. Gli succedette il figlio Fëdor II, che regnò pochi mesi prima di perire in una congiura dei boiardi assieme alla madre e alla moglie. Dmitrij, allora, entrò a Mosca e fu riconosciuto ufficialmente dalla sua presunta madre. Incoronato zar, Dmitrij regnò un solo anno, quanto bastò a renderlo inviso alla popolazione e a molti nobili. Lui e Marina si rifiutarono di convertirsi all’ortodossia russa ed esiliarono in Siberia molti nobili. Altri, invece, caduti in disgrazia o costretti a prendere i voti durante lo zarato di Boris furono richiamati indietro. Fra questi il monaco Filarete, nato Fëdor Romanov, nipote di Anastasija, la prima e la più amata moglie di Ivan IV. Nel maggio 1606, i boiardi moscoviti penetrarono nel Cremlino, fecero a pezzi Dmitrij, ne esibirono il cadavere nella Piazza rossa e bruciarono i resti. Marina, al contrario, riuscì a sfuggire. La Russia era nel caos.

BIBLIOGRAFIA:

I TOPONIMI DELLA NUOVA ROMA

Oggi sul Bosforo tracico e anatolico, fra il Mar Nero e il Mar di Marmara, troneggia Istanbul, o İstanbul alla turca, città transcontinentale e per secoli capitale di imperi i cui echi si odono ancora. Nonostante la nota diceria, Istanbul non è un nome di origini turca. Quindi, come si giunse a chiamare così la città che un tempo era conosciuta come la Nuova Roma?

La storia della Nuova Roma cominciò nel 686 a.C., quando i Megaresi fondarono la colonia (apoikìa) di Calcedonia sulle coste dell’Asia minore. La condizione sfavorevole del nuovo insediamento, dovuta alla mancanza di correnti, portò la madrepatria a organizzare una nuova spedizione, che nel 659 a.C. portò alla fondazione di Bisanzio. Erodoto riportò che il nome derivi dal fondatore greco Byzas. Tuttavia, altre fonti riportano che il leggendario Byzas fosse in realtà il sovrano trace di Lygos, insediamento precedente a Bisanzio. Altre colonie crebbero nello stretto, e la più importante fu Crisopoli.

Fu a Crisopoli che più quasi mille anni dopo, nel 324 a.C. si combatté la battaglia decisiva fra Costantino il Grande e Valerio Licinio, e che permise al primo di diventare a tutti gli effetti imperatore. La posizione strategica delle città sul Bosforo e la prosperità e sicurezza della zona orientale, convinsero Costantino a spostare la capitale da Roma a Bisanzio, presto rinominata Nuova Roma e, più tardi, Costantinopoli. Anche le città del Bosforo mutarono nel tempo: Crisopoli divenne Scutari, dal greco “Skuotarion” che indicava gli scudi in pelle, mentre a nord sorse Pera, che significa “oltre” in greco, più tardi chiamata anche Galata.

Quando gli Ottomani conquistarono la città nel 1453, ottomanizzarono la città chiamandola in Kostantīnīye, cercando di farsi portatori della continuità dell’Impero bizantino. Mentre i Greci rimasti in città continuarono a utilizzare i nomi precedenti, i nuovi abitanti di Kostantīnīye presero a chiamare Scutari “Üsküdar”, Calcedonia “Kadıköy” e Pera “Beyoğlu”, quest’ultimo forse in onore del figlio di un bailo veneziano. Nelle corrispondenze e cartoline occidentali, la città continuò a essere indicata come Costantinopoli.

Infine, nel 1923, quando, terminata l’occupazione dell’Intesa a seguito della Prima guerra mondiale, la Città perse il titolo di capitale nella nuova Turchia repubblicana, cedendolo ad Ankara, e l’antico nome: nel 1930 Costantinopoli fu rinominata Istanbul, da Stamboul il nome della città vecchia al di qua delle mura costantinee. Ma anche questo toponimo aveva un’origine greca: Istanbul o Stamboul, infatti, deriverebbe da un cambiamento linguistico degli arabi e degli ottomani, che per imitare il greco “èis ten Pòlin”, ovvero “in direzione della Città”, divenuto poi Stamboul e più tardi Istanbul.

BIBLIOGRAFIA:

  • CORSARO Mauro, GALLO Luigi, Storia greca, Le Monnier, Firenze, 2010
  • ERODOTO di Alicarnasso, TUCIDE di Atene, Storie – La Guerra del Peloponneso, Biblioteca Universale Rizzoli (BUR), Milano, 2008
  • MANTRAN Robert, Storia dell’Impero Ottomano, Argo, Lecce, 1999
  • OSTROGORSKY Georgij Aleksandrovič, Storia dell’Impero bizantino, Einaudi, Milano, 1968.

SESOSTRI III E LE CAMPAGNE CONTRO I NUBIANI (1879-1859 a.C.)

Lettura articolo: 3 minuti

PROTAGONISTI:

  • Regno dell’Alto e Basso Egitto: faraone Sesostri III, faraone Mentuhopet II.
  • Nubiani.

PARTE I: il Medio Regno tra l’undicesima e dodicesima dinastia

Dopo centoventi anni di lotte interne, dove i governatori provinciali acquisirono un potere amministrativo spesso più forte di quello del Faraone, Mentuhopet II, sesto sovrano dell’XI dinastia riuscì a ristabilire l’ordine e a riunificare l’Alto e Basso Egitto, dando inizio al Medio Regno alla fine del II millennio a.C. Tuttavia, non riuscì, così come non riuscirono i suoi successori, ad accentrare su di sé un potere paragonabile ai faraoni precedenti al secolo di quasi anarchia. Mentuhopet II riuscì a riconquistare i territori della penisola del Sinai e alcuni insediamenti a nord della Bassa Nubia. La Nubia, regione a cavallo tra il moderno Egitto meridionale e il Sudan settentrionale che gli Egizi chiamavano “paese di Kush”, fu sempre ritenuta dai Faraoni un territorio d’importanza economica e umana. I sovrani della XII dinastia, nella formazione di eserciti stabili, ben attrezzati e allenati, inclusero contingenti nubiani. In particolare, i Nubiani al servizio degli Egizi erano arcieri, come lo dimostrano le statuine rinvenuti nelle tombe. Dalla Nubia, inoltre, provenivano le grandi quantità d’oro che portavano i sovrani, i dignitari e i sacerdoti egiziani. A questo si aggiungevano pelli di animali esotici, resine e avorio. Il tutto giungeva a Tebe, centro del Regno, per rotta fluviale, per poi raggiungere il Mediterraneo.

PARTE II: Sesostri III e le prime due campagne in Nubia

Salito al trono alla morte del padre nel 1879, Sesostri III diede il via a un progetto che prevedeva la costruzione di un canale in grado di costeggiare le cateratte del Nilo, ovvero i punti dove, a causa della fin troppo bassa profondità, non era possibile navigare. Dopo un anno il canale fu pronto: era lungo quasi ottanta metri, largo dieci e profondo nove. A quel punto Sesostri ordinò l’invasione della Bassa Nubia. Riguardo la prima campagna, una stele rinvenuta a Semna, eretta al nono anno di regno di Sesostri III nel 1870 a.C., conferma lo spostamento del confine a cinquanta miglia più a sud. La stele riporta anche l’ordine del Faraone di impedire a qualunque Nubiano di attraversare il confine senza un’autorizzazione commerciale. La seconda campagna, terminata nel decimo anno di governo di Sesostri, riporta gli scontri avvenuti tra gli Egizi e i Nubiani a ottanta chilometri a sud di Semna, forse la sedazione di una rivolta.    

PARTE III: la terza e quarta campagna di Nubia

Sesostri III si dimostrò abile nella politica interna quanto nella politica estera. Questo periodo di stabilità rivoluzionò l’arte orafa e scultorea egizia. A provarlo sono gli ornamenti in oro nubiano delle principesse egiziane, e le statue raffigurante il volto realistico del Sovrano. Nel sedicesimo anno di Regno (1863 a.C.), Sesostri III guidò una terza campagna contro i Nubiani. Anche in questo caso si tratto di una spedizione punitiva, che portò all’edificazione della fortezza di Uronarti a sud della cateratta dove anni prima era stato costruito in tempi celeri il canale. Nelle iscrizioni sui muri della fortezza, il Faraone rimprovera ai Nubiani lo stile di combattimento troppo difensivo, incentrato sull’evitare il corpo a corpo, definendoli «poveri e meschini» e vantandosi di aver bruciato il loro grano e disperso il bestiame. Tre anni dopo, Sesostri ordinò la quarta e ultima campagna, anche questa riportata sulle mura di Uronarti. Come nei casi precedenti, si trattò di una vittoriosa spedizione punitiva. I geroglifici, inoltre, riportano le difficoltà delle imbarcazioni egizie a superare le cataratte. Fu in questo periodo che Sesostri ordinò la costruzione di un’altra fortezza a Buhen, dotata di un doppio ordine di mura ed eretta in tempi brevi.  

Stele di Semna, che segnalava i confini del Regno egizio con la Nubia, 1860 a.C., 160×96 cm, Museo egizio, Berlino

BIBLIOGRAFIA:

  • CALLENDER GAE, The middle kingdom Renaissance (c. 2055-1650 BC), contenuto in SHAW Ian, The Oxford History of Ancient Egypt, Oxford University Press, Oxford, 2000.
  • GRAJETZKI Wolfram, The Middle Kingdom of Ancient Egypt: History, Archaeology and Society, Bristol Classical Press, Bristol, 2006.
  • MASCORT MAITE, Sesostri III: il Faraone che conquistò la Nubia, Rivista Storica (National Geographic Italia), Anno VI, Numero 81, novembre 2015.

L’ARRIVO DEGLI OTTOMANI IN ANATOLIA (XI secolo-1326)

Lettura articolo: 4 minuti

PROTAGONISTI:

  • Tribù turciche, prima oguze poi kayi: khan Oğuz.
  • Ottomani:  Süleyman Şah, Ertuğrul, Osman.
  • Impero romano d’oriente: Governatore di Vilokoma, Michele il glabro.

PARTE I: nelle steppe dell’Asia centrale

Se con “turco” si designa una persona o cosa relativa alla contemporanea Turchia, la parola “turcico” si riferisce, invece, il legame con le lingue e culture turciche, quali il tataro, l’azero, il kazako e, anche, il turco. Per estensione, “turcico” indica un tipo di sella, usata in principio dai cavalieri turcichi. In effetti, i progenitori degli odierni turchici vivevano in una stepposa regione dell’Asia centrale tra la Mongolia, la Manciuria e la Cina del nord. Si dedicavano alla pastorizia e all’agricoltura, attività che trovano una loro conferma nel lessico comune, in una lingua chiamata proto-turcico, piena di lemmi riguardanti il clima, i corsi d’acqua e la fauna. Praticavano il tengrismo, di cui Tengri, eponimo dio del cielo, era la principale divinità termine. Ancora oggi il termine “Tengri” è utilizzato per indicare un dio in molte lingue turciche, a eccezione di Allah. Il primo Stato turcico di cui si riscontra l’esistenza fu il Khaganato turcico, entità esistita a cavallo tra il VI e VII secolo. La forza del Khaganato  si reggeva sulla posizione geografica, che gli garantiva il controllo delle rotte della Via della seta, che la limitrofa Cina non esitava a versare tributi. Si registrano ben cinquantamila cavalli e centomila rotoli di seta inviati annualmente dai sovrani cinesi al Khan, esportato poi nei mercati bizantini e persiani.

La brusca fine del Khaganato avvenne al momento della successione: secondo le leggi dei clan che componevano il Khaganato, il potere spettava al più anziano ed esperto combattente tra i più vicini parenti del Khan defunto, escludendo i discendenti delle linee femminili. Questo sistema è chiamato successione laterale. Le successive guerre civili portarono alla dissoluzione dello Stato e alla migrazione verso occidente dei turcichi. La divisione linguistica arrivò al punto di non ritorno. Alle migrazioni si unì all’abbandono dello sciamanesimo in favore dell’Islam sunnita e, in alcuni casi, sciita. Tra i neonati ceppi turchici vi furono i turchici oguzi, così chiamati in onore del leggendario khan Oğuz. Stanziatisi inizialmente nel sud-ovest del Kazakistan, gli oguzi furono tra gli ultimi a convertirsi all’Islam verso il IX secolo.   

PARTE II: la migrazione in Anatolia e Osman

La conversione degli oguzi coincise con la loro migrazione, dipoi divenuta guerra, che portò alla nascita dell’Impero selgiuchide, la cui dinastia regnante era di ceppo turcico, così come fu turcica la dinastia dell’Ilkhanato, Stato successore dei Selgiuchidi. I clan minori migrarono ulteriormente verso occidente; la tribù Kayi, secondo la tradizione discendente di Oğuz, raggiunse prima il Caucaso, dove alcuni di loro si stanziarono per dar vita ai moderni azeri, e poi l’entroterra anatolico. Alla morte del loro capo Süleyman Şah, i suoi tre figli si spartirono i possedimenti. Due di loro intrapresero la via del ritorno in Asia centrale, stanziandosi a nord della Persia e divenendo gli antenati dei moderni turkmeni. Ertuğrul, il fratello rimasto in Anatolia con un’eredità di quattrocento tende, mandò un messo presso il Sultano dell’Ilkhanato, a domandargli terre e bestiame per il suo popolo. Il Sultano concedette a Ertuğrul il territorio circondante la città di Söğüt e la città stessa.

Alla morte di Ertuğrul, il figlio Osman intrecciò buoni rapporti coi vicini bizantini, in cambio di prodotti caseari e agnelli. In particolare le relazioni si rivelano buone col Signore di Bilecik, e con Michele il Glabro, un nobile bizantino. In occasione, però, del matrimonio del primo, Michele avvisò Osman di un tranello per ucciderlo durante le celebrazioni. Saputa la cosa, i due alleati sventarono i piani del Signore di Bilecik, conquistarono la città e Osman prese per moglie la promessa sposa del morto. Questi avvenimenti si susseguirono in un periodo che va dal 1283 al 1299, anno in cui Osman, forte del prestigio e potenza militare, si dichiarò indipendente dal Sultano dell’Ilkhanato. Osman, che regnò fino al 1326, raddoppiando l’estensione dei propri domini, fu il capostipite della dinastia che avrebbe regnato su quei territori fino al 1923.     

BIBLIOGRAFIA:

LA GERMANIA ORIENTALE (X-XII secolo)

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PROTAGONISTI:

  • Regno dei Franchi orientali, Marche orientali, Sacro romano impero, Margraviato di Brandeburgo: re Enrico I l’Uccellatore, Tietmaro di Menseburgo, Gerone di Merseburgo, imperatore Ottone I, margravio Alberto I di Ballenstedt detto l’Orso.
  • Tribù slave pagane: principe Tugumir, principe Pribislao, Jaksa di Copnic.

PARTE I: dal X all’XII secolo, a ovest dell’Oder

A seguito della migrazione dei Burgundi, si insediarono nei territori dell’attuale Polonia centroccidentale, nel VI secolo, tribù slave occidentali pagane. In particolare gli Evelli, assimilarono la residua popolazione indigena, nonostante la conservazione di tracce di termini germanici nei nomi dei fiumi (Elba, Saale, Havel) e di alcune regioni minori. Proprio sul fiume Havel si sviluppò Brennabor, o Branibor, un insediamento slavo fortificato risalente al VII secolo. Altri insediamenti, la cui origine risale alla colonizzazione slava, furono le attuali Lipsia (dallo slavo comune lip, tiglio), Lubecca (da ljub, amare) e Berlino (da berl o birl, palude). Nel 929, il re dei Franchi orientali Enrico I l’Uccellatore conquistò Brennabor, chiamata “Brandeburgo” dai tedesci, destituì il principe evelliano Tugumir e affidò la regione nelle mani del suo istitutore Tietmaro, eletto “margravio” della Marca con sede a Merseburgo, che a sua volta la lasciò in eredità al figlio Gero. Questa eredità comprendeva anche i territori degli Obodriti, a nord di Brandeburgo, e dei Lusazi, a sud di Brandeburgo. Rimasto senza eredi maschi, Gero morì nel 965, dopo aver combattuto per tutta la vita contro le tribù slave nel tentativo di cristianizzarle.

Alla morte del margravio, Ottone I, re dei Franchi orientali nonché figlioccio di Gero, divise nel 965 la Marca di Merseburgo in marche più piccole: la Marca dei Billunghi, comandata dall’eponima dinastia sassone e situata nei territori obodriti, le marche di Meißen, di Lusazia, di Zeitz e la rimpicciolita Marca di Merseburgo. La più grande delle neonate marche fu, tuttavia, la Marca del Nord con centro Brandeburgo, dove era da poco stata fondata l’omonima diocesi, che si fece promotrice di una severa cristianizzazione. Questa, unita al cattivo governo del margravio della marca Teoderico di Haldensben, scoppiò nel 983 una rivolta delle popolazioni evelliane e obodrite. Gli slavi riconquistarono Brandeburgo e strapparono al Regno la Marca dei Billunghi e del Nord, ma non riuscirono a penetrane in Lusazia. I missionari e i vescovi furono cacciati, mentre la Diocesi e i Margraviati continuarono a esistere solo de iure per quasi due secoli.   

PARTE II: Alberto l’Orso e la riconquista di Brandeburgo

Nel 1127 divenne signore di Branibor il principe evelliano Pribislao, pagano di nascita ma battezzato da bambino col nome tedesco di Heinrich. Il Principe intrattenne ottimi rapporti col vicino Sacro romano impero, in particolare col margravio della Lusazia Alberto di Ballenstedt, divenendo padrino del primogenito del nobile tedesco. Pribislao riuscì a farsi riconoscere signore di Branibor dallo stesso Imperatore germanico, ma quando morì nel 1150 la città passò sotto il controllo di Alberto, grazie ad un accordo stretto col defunto Principe un decennio prima.

Ma Jaksa di Copnic (oggi Köpenick, quartiere di Berlino), parente di Pribislao, non riconobbe la successione e, con l’aiuto dei vicini ducati polacchi e della popolazione rurale di Branibor e dintorni ancora legata al paganesimo, prese il controllo della città nel 1153. Quattro anni dopo Alberto guidò una spedizione sull’Havel e riconquistò la città, che da quel momento riprese il toponimo tedesco, ritornando capitale della Marca del Nord, più tardi conosciuta come Margraviato di Brandeburgo. Alberto mise subito un atto una politica di cristianizzazione, germanizzazione e di colonizzazione. Fu lui a rifondare la città di Berlino, che secondo le fonti tedesche del XIX secolo prenderebbe il nome dalla parola Bär (orso), simbolo della città; tuttavia, i primi riferimenti alla futura capitale prussiana e tedesca, come accennato nel primo paragrafo, risalgono all’epoca altomedievale e slava. Il Margraviato era una territorio pianeggiante, sabbioso, con pochi alberi e spesso paludoso. Tuttavia Alberto incoraggiò con successo l’arrivo di coloni tedeschi e fiamminghi, ma non mancarono francesi, italiani e inglesi. Gli Slavi convertiti e non germanizzati si concentrarono nella foresta della Sprea o Spreewald.

BIBLIOGRAFIA:

  • CLARK Christopher, The Iron Kingdom: The Rise and Downfall of Prussia 1600-1947, Penguin, Londra, 2007.
  • GARZANITI Marcello, Gli Slavi. Storia, cultura e lingue dalle origini ai giorni nostri, Carrocci, Roma, 2013.
  • REUTER Timothy, Germany in the Early Middle Ages 800 – 1056, Routledge, New York (NY), 2013.

CASIMIRO III IL GRANDE – PARTE SECONDA

Lettura articolo: 3 minuti

PROTAGONISTI:

  • Regno di Polonia: Casimiro III Piast il Grande.
  • Regno d’Ungheria, Ducato di Lituania.

Prima e seconda parte

PARTE III: la politica interna di Casimiro III

Aiutato da consiglieri ecclesiastici e laici di provata fiducia e bravura, spesso neppure originari del Regno,  Casimiro dotò la Polonia di un’amministrazione efficace. Il culmine di questa rinascita statale fu l’apertura, nel 1364, dell’Università di Cracovia, l’attuale Jagellonica, la prima università polacca e la seconda dell’Europa centrorientale dopo la Carolina di Praga, sorta nel 1348. A Cracovia si insegnavano l’astronomia, il diritto e la medicina, ma non la teologia: non legata al Sacro romano impero, e dunque più indipendente da Roma, una cattedra di teologia in territorio polacco avrebbe potuto causare una frattura tra la Chiesa polacca e romana. I docenti cracoviani miravano alla formazione di giuristi e uomini di Stato per uno dei regni più grandi d’Europa.

Con la crescita dell’importanza di Cracovia, centro della Piccola Polonia, i rapporti con la Grande Polonia, il cui centro dell’epoca era la città vescovile di Gniezno, peggiorarono, e Casimiro non fece nulla per diminuire i contrasti. Anzi. Stabilito un accordo coi Cavalieri teutonici, i confini nordoccidentali si erano rafforzati, e ciò permise al Re di confiscare il tesoro vescovile nel 1352. Il ricavato servì a finanziare le campagne militari e rafforzare il controllo della Galizia. La confisca dei beni ecclesiastici, unita alle rivendicazioni regie di alcuni territori strategici, portarono a una breve rivolta nella regione, sedata in pochi mesi. Il capo della rivolta fu lasciato morire di fame in carcere, come esempio. 

Casimiro, inoltre, trovò il modo di mantenere un adeguato numero di truppe, permettendo agli amministratori di villaggi contadini (i wójtowie, dal tedesco Vogt e traducibile con “balivo”) di prendere parte alle campagne militari assieme alla classe dei cavalieri. Grazie anche all’arrivo di Ebrei provenienti dal Sacro romano impero, a cui il Re permise di insediarsi in sobborghi o enclavi delle grandi città, la popolazione del Regno crebbe come mai da decenni. Cinquanta castelli e città sorsero in Polonia durante il principato di Casimiro, mentre a Cracovia furono create due corti d’appello, indipendenti dalla corte imperiali di Magdeburgo. Notabile, inoltre, fu l’afflusso di Armeni, che dal Caucaso si spostarono nei territori orientali del Regno.

PARTE IV: gli ultimi anni e l’unione con l’Ungheria

In cambio degli aiuti ricevuti in Boemia e in Galizia da Luigi I d’Angiò, Casimiro promise al nipote magiaro che le terre polacche sarebbe finite in unione personale col Regno d’Ungheria. Casimiro, tuttavia, non fu mai convinto di lasciare il regno agli Angioini. In vita sua si sposò quattro volte, divorziò due volte e rischiò l’accusa di bigamia. Ma dai matrimoni nacquero cinque figlie e nemmeno un maschio. La legge salica, che concedeva il titolo regio soltanto ai discendenti maschi, impedì alle figlie di ereditare il Regno. Alla fine degli anni ’60 del Trecento, Casimiro annetté il Ducato di Chełm, mentre la situazioni in Galizia poteva dirsi stabilizzata: l’Orda d’oro era troppo debole per attaccare le terre della Corona, mentre i nobili ortodossi galiziani si erano rifugiati nel Ducato di Lituania.

Nel 1770, Casimiro si spense, e con lui il ramo principale della famiglia Piast, la stessa che nel 966 aveva dato origine al Regno di Polonia. I rami cadetti della casata, tuttavia, continuarono a governare i Ducati masoviani fino al XVI secolo. Come d’accordo, Luigi I d’Angiò divenne re di Polonia, mentre i Cavalieri teutonici, in accordo col sovrano ungherese, riannetterono la città e il territorio di Dobrzyń.

BIBLIOGRAFIA:

  • DAVIES Norman, Heart of Europe: The Past in Poland’s Present, Oxford University Press, Oxford, 2001.
  • GARZANITI Marcello, Gli Slavi. Storia, cultura e lingue dalle origini ai giorni nostri, Carrocci, Roma, 2013.
  • LUKOWSKI Jerzy, ZAWADZKI Hubert, Polonia. Il paese che rinasce, Beit, Trieste, 2009.

CASIMIRO III IL GRANDE (1310-1370) – PARTE PRIMA

Lettura articolo: 3 minuti

PROTAGONISTI:

  • Regno di Polonia: Casimiro III Piast il Grande, Ladislao I Piast il Breve.
  • Regno di Boemia, Regno d’Ungheria, Ducato di Lituania, Principato di Galizia.

PARTE I: il Regno di Polonia e il Sacro Romano Impero prima di Casimiro

Le vicende di Casimiro III, l’unico re polacco a cui è stato attribuito l’epiteto “il Grande”, cominciano nel Principato della Cuiavia. Era questo uno degli Stati nati alla divisione del Regno di Polonia nel 1138, e accentuatasi nel corso del XIII secolo. I membri della dinastia Piast si spartivano i Principati al momento della morte del proprio signore. Ogni figlio maschio otteneva una parte del territorio. Al più potente e armato spettava la fetta più grande e ricca; ai più deboli il resto. Casimiro nacque nel 1310 vicino a Inowrocław in Cuiavia, dove il padre Ladislao governava quale principe della Cuiavia. Prima della nascita del figlio, Ladislao era stato anche principe della Grande Polonia, la cui capitale era Gniezno, e poi di Sandomierz, per poi tornare a essere signore della Grande Polonia, pochi anni dopo la nascita di Casimiro. Era prassi che i Piast si scambiassero i principati, dopo lunghi accordi, o li vincessero dopo guerre. Non erano estranei a questi accordi dinastici anche i vicini principati ruteni, slavi orientali di religione ortodossa che da cent’anni erano alle prese con l’Orda d’oro.  

Con l’appoggio di papa Giovanni XXII, nel 1320, Ladislao riuscì a farsi incoronare re di Polonia a Cracovia, sede del primus inter pares tra i principi Piasti, tra le proteste di Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia che reclamava la corona polacca, del Marchese di Brandeburgo e dei Cavalieri dell’Ordine teutonico, i quali conducevano una guerra alterna con Ladislao da quasi vent’anni. Nello stesso anno, però, Ladislao trovò un prezioso alleato nel confinante Regno d’Ungheria, retto dall’angioino Carlo Alberto, che prese per moglie Elisabetta, figlia del Re polacco e sorella di Casimiro. E per ragioni di Stato, Ladislao siglò un accordo col Duca di Lituania, uno dei pochi sovrani europei ancora pagano. Questi accordi, tuttavia, non permisero al Re di difendersi adeguatamente: perdette le città di Inowrocław e Dobrzyń a favore dei Cavalieri teutonici e non riuscì a sottomettere il Ducato di Płock e la regione della Masovia. Nel 1332 Ladislao morì, lasciando un regno meno esteso di quello che aveva ereditato nel 1320, e Casimiro, unico figlio rimastogli, salì al trono.        

PARTE II: le guerre in Galizia e Boemia

I sudditi di Casimiro ammontavano a circa ottocentomila anime, meno della metà di coloro che potevano essere denominati “polacchi”. Per questo, all’indomani dell’incoronazione, Casimiro era considerato dai duchi e principi polacchi più quale “re di Cracovia”, che “re di Polonia”. Nel primo decennio del regno, Casimiro fece valere la sua autorità regia sui vassalli della Corona di Polonia. Nel 1340 il principe Boleslao Piast fu scelto quale sovrano del Principato di Galizia, con capitale Halyč (Halicz in polacco) e, per questo, fu obbligato a convertirsi al Cristianesimo ortodosso, prendendo il nome di Giorgio II. Tuttavia, la nobiltà locale, inimicatasi il nuovo sovrano per via dei suoi sentimenti filocattolici, riuscirono ad avvelenarlo e a creare un vuoto di potere. Casimiro, in accordo col Duca di Lituania, penetrò in Galizia e sottomise in pochi anni la regione occidentale del Principato. Alla Lituania, spettò, invece, il vassallaggio della parte orientale. I nuovi territori, ricchi di terreni fertili e prossimi al Mar Nero, arricchirono la Corona e la nobiltà polacca, il cui centro principale passò da Halycz a Leopoli.

A Occidente, nel 1343, Casimiro strinse un accordo coi Cavalieri teutonici nella cittadina di Kalisz. In cambio della restituzione di Inowrocław e Dobrzyń, la Polonia rinunciava alla Pomerania e a Danzica. Due anni dopo scoppiò una guerra contro la Boemia dei Lussemburgo, sul controllo dei ducati slesiani. Casimiro, ancora impegnato in Rutenia, fu costretto a cedere e nel 1348 riconobbe l’annessione della Slesia alla Boemia, nonostante l’appoggio del nipote Luigi II d’Ungheria, figlio della sorella Elisabetta. La Slesia e la Pomerania, perdute a seguito dell’anarchia feudale dei secoli precedenti, sarebbero tornate sotto la sovranità polacca solo alla fine della Seconda guerra mondiale. In compenso, il Re boemo fu costretto a rinunciare alle sue pretese sul principato di Płock e sulla Masovia, dove, nel frattempo, il principe Ziemowit III era divenuto vassallo di Casimiro, promettendo in eredità al Re il Principato a condizione della nascita di un erede maschio legittimo.

BIBLIOGRAFIA:

  • DAVIES Norman, Heart of Europe: The Past in Poland’s Present, Oxford University Press, Oxford, 2001.
  • GARZANITI Marcello, Gli Slavi. Storia, cultura e lingue dalle origini ai giorni nostri, Carrocci, Roma, 2013.
  • LUKOWSKI Jerzy, ZAWADZKI Hubert, Polonia. Il paese che rinasce, Beit, Trieste, 2009.

LA BATTAGLIA DI PAVIA E L’INCORONAZIONE DI CARLO V A BOLOGNA (1525 e 1530)

Lettura articolo: 4 minuti

PROTAGONISTI:

  • Sacro Romano Impero e alleati: Carlo V d’Asburgo, Antonio de Levya, Georg von Frunsberg, Ferdinando Gonzaga di Mantova, cancelliere Mercurino di Gattinara, ammiraglio Andrea Doria (dal 1527).
  • Regno di Francia: Francesco I di Valois, ammiraglio Andrea Doria (fino al 1527).
  • Stato della Chiesa: Papa Clemente VII Medici, cardinale Alessandro Farnese.

PARTE I: le ambizioni di Carlo V

Nel 1519, il diciannovenne Carlo d’Asburgo fu designato imperatore del Sacro Romano impero dal collegio dei sette Principi elettori; i ministri e i banchieri asburgici riuscirono, infatti, a corrompere i Principi con più di ottocentomila fiorini, impedendo l’ascesa al trono imperiale dei sovrani inglesi e francesi, nonché dell’allora pontefice Leone X. L’anno successivo si svolse la cerimonia di incoronazione a Re dei Romani, ovvero dei Germanici, alla Cattedrale Palatina di Aquisgrana. Benché re dei Romani, a Carlo mancava ancora il riconoscimento al titolo di “re d’Italia”, con relative insegne e pretese, che poteva avvenire tramite il riconoscimento del Papa e l’incoronazione, per sua mano, a Roma. E questo non avveniva dal 1452.

La salita al trono portò Carlo V a essere il più potente sovrano europeo: l’eredità spagnola, con i suoi prodromi del futuro impero coloniale nelle Americhe e in Asia, l’eredità borgognona e l’eredità imperiale portarono il giovane sovrano a interessarsi a una politica sia su scala europea, sia su scala mondiale. Le ambizioni asburgiche trovarono subito nemici nel re di Francia, Francesco I di Valois, che reclamava il Ducato di Milano per motivi dinastici e quale compensazione dell’elezione di Carlo al trono del Sacro Romano Impero, e del pontefice Clemente VII, salito al soglio petrino nel 1523. Già nell’autunno dell’anno dopo, Francesco riuscì con trentamila uomini a entrare a Milano, grazie all’appoggio di mercenari svizzeri e italiani.

PARTE II: la Battaglia di Pavia

Nell’ottobre 1524 Francesco si diresse a Pavia, dove lo attendevano i seimila soldati dello spagnolo Antonio de Leyva, e circondò la città con la sua sofisticata ma pesante artiglieria. Le piogge autunnali resero il terreno una fanghiglia, ma il Re di Francia proseguì l’assedio, mentre de Leyva dava l’ordine di confiscare i beni ecclesiastici e pagare i soldati. L’assedio diede tempo all’esercito imperiale di consolidarsi con altre truppe napoletane e seimila lanzichenecchi, questi ultimi capitanati dallo svevo Georg von Frundsberg. Ridotto alla fame, gli imperiali erano costretti a mangiare un solo pezzo di pane al giorno. Nel febbraio del 1525 entrambi gli schieramenti contavano circa venticinquemila uomini: ventimila fanti e duemila cavalieri imperiali contro undicimila fanti, quattromila cavalieri e diecimila riserve francesi.

Nella notte del 23 febbraio, due manipoli imperiali aprirono una breccia nelle mura di Mirabello, frazione nel settentrione di Pavia. L’ala destra francese lanciò un attacco sulla retroguardia imperiale, e Francesco I tentò di sferrare la carica decisiva. Così avvenne, sennonché l’artiglieria francese fu costretta a smettere di sparare per non colpire le truppe amiche. Questo permise alla cavalleria e agli archibugi imperiali di contrattaccare. Frunberg ricompose la retroguardia, mentre Leyva diresse le proprie truppe alle porte della città e impedì ai rinforzi nemici di entrare. Alle poche ore dall’alba, le truppe francesi compresero che la battaglia e la città erano perdute. Numerosi sbandati si gettarono nel fiume Ticino in cerca della fuga. Anche Francesco I tentò di fuggire, ma un archibugio colpì il suo cavallo. La carcassa dell’animale impedì al Re di lasciare il campo, e tre soldati spagnoli lo catturarono con facilità. Le perdite francesi, tra morti e annegati, ammontarono a quasi quindicimila.

Per ordine di Carlo V, Francesco I fu portato a Madrid, dove rimase nove mesi. Spesso il Re di Francia riceveva visite dall’Imperatore dei Romani, il quali riuscì a strappargli un trattato: in cambio del rilascio, Francesco si impegnava a rinunciare alle sue pretese in Borgogna, nelle Fiandre e in Italia. Inoltre, avrebbe ritirato le truppe dalla Liguria, cosa che avvenne solo nel 1528. L’anno prima i lanzichenecchi di von Frunberg avevano saccheggiato Roma, e costretto Clemente VII, colpevole agli occhi dell’Imperatore di atteggiamenti filofrancesi, a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo. Solo nel 1529, dopo i negoziati di Barcellona, l’Imperatore e il Papa si riconciliarono. Carlo V ottenne da Clemente VII la promessa dell’incoronazione a re d’Italia, cerimonia che non si sarebbe tenuta a Roma, ancora provata dal saccheggio, bensì a Bologna, città, comunque, appartenente allo Stato pontificio.

PARTE III: l’incoronazione di Carlo V a Re d’Italia

“Dio, il creatore, vi ha concesso la grazia di elevare la vostra dignità sopra tutti i re e i principi della cristianità, di convertirvi nel più grande imperatore e re dalla divisione dell’impero di Carlo Magno, e vi ha indicato il cammino verso la giusta monarchia universale al fine di unire l’orbe intero sotto un unico pastore”. Con queste parole Mercurino di Gattinara, consigliere di Carlo V, consigliava il suo sovrano. La politica estera imperiale non era figlia di schemi politici, ma della volontà divina. L’incoronazione per mano papale a Bologna era uno dei tasselli che avrebbe permesso a Carlo V di farsi riconoscere quale erede dell’Impero carolingio. Per l’occasione, in città furono eretti archi di trionfo dedicati a Nettuno e a Bacco, con le effigi degli imperatori romani fino ad arrivare a Carlo Magno.

Il 22 febbraio Clemente VII incoronò Carlo d’Asburgo re d’Italia, ponendogli sul capo la corona ferrea longobarda. Invece, il 26 febbraio, giorno del trentesimo compleanno di Carlo, nella Chiesa di San Petronio  l’Imperatore ricevette le investitura canonica di San Pietro, la spada, che gli conferiva il diritto di muovere guerra in difesa del Cattolicesimo. Il cardinale Alessandro Farnese, il futuro Paolo III, lo unse con l’olio santo. Infine, Clemente VII gli cinse la testa col diadema imperiale. Conclusa la cerimonia, l’Imperatore e il Pontefice sfilarono in una lunga processione per la città, seguiti dai principi italiani e ufficiali imperiali. Lasciata Bologna, Carlo V si diresse ad Augusta, dove emanò l’omonima Dieta riguardanti le divisioni tra protestanti e cattolici.     

BIBLIOGRAFIA:

  • CAPRA Carlo, Storia moderna 1492-1848, Mondadori, Milano, 2016.
  • PALOS Joan Lluís, L’incoronazione di Carlo V, Rivista Storica (National Geographic), Anno 5, Numero 60, febbraio 2014, RBA Italia, Milano.
  • SEGURA Germán, Pavia: il trionfo di Carlo V, Rivista Storica (National Geographic), Speciale Storica: Le grandi battaglie dell’età moderna, Anno 1, Numero 3, 27 ottobre 2020, RBA Italia, Milano.

LA CONQUISTA RUSSA DELLA CRIMEA (1768-83)

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PROTAGONISTI:

  • Impero russo: Caterina II, Aleksej Grigor’evič Orlov, Aleksandr Vasil’evič Suvorov, Grigorij Aleksandrovič Potëmkin.
  • Impero ottomano: Mustafa III, Abdül Hamid I, Cezayirli Gazi Hasan Paşa.
  • Khanato di Crimea.

PARTE I: Russi e Ottomani nel Mar Nero

Col Trattato di Costantinopoli del 1700, lo Zarato russo di Pietro I riuscì a ottenere un porto caldo sul Mar Nero con la città di Azov e dintorni. Questo francobollo di terra fu teatro delle guerre russo-ottomane, e non passava decennio dove la città e dintorni non venivano trasferiti da impero a impero, finché nel 1739 passò definitivamente alla Russia, previa la distruzione della fortezza e degli edifici amministrativi, e conseguente smilitarizzazione. La città fu lasciata in rovina, e i successivi sovrani si disinteressarono alle politiche anti-ottomane. Azov era, infatti, circondata dal centenario Khanato di Crimea, vassallo ottomano da sempre fonte di prodotti agricoli, schiavi, soldati e concubine.

Fu la salita al trono di Caterina II nel 1762 a modificare la politica russa nel Mar Nero. Amante degli autori classici e della storia antica, Caterina utilizzò le sue passioni per i suoi scopi geopolitici. Dopo aver posto al trono della Confederazione polacco-lituana il suo favorito Stanislao Augusto Poniatowski, assicurando così il confine occidentale e contravvenendo agli accordi del 1739, che impedivano alla Russia di intromettersi negli affari polacchi, il Sultano Mustafa III le dichiarò guerra nel 1768. 

PARTE II: la Spedizione Orlov, il Progetto greco, le battaglie

Caterina ordinò all’ammiraglio Aleksej Orlov, fratello del favorito Grigorij, di guidare la Flotta baltica da San Pietroburgo alla Grecia, e di seminare astio tra le popolazioni ortodosse e fomentare una serie di rivolte che avrebbero destabilizzato la Sublime Porta. Sbarcato in Epiro e nel Peloponneso nel 1770, Orlov si rivolse ai locali militari greci in cerca di rinforzi, ma l’inerzia e la cupidigia dei peloponnesiaci frenarono le aspirazioni dell’Ammiraglio. Poche furono le azioni greco-russe, e la mancanza di coordinamento arenò le aspettative. Per domare le rivolte, il governatore ottomano chiese aiuto a soldati albanesi, mentre i russi e i greci rivoltosi presero la via del mare. Successi di Orlov furono, invece, la conquista di Lemno e la Battaglia navale di Çeşme: la superiorità numerica ottomana non resistette alle più moderne imbarcazioni russe. Fu la più grave sconfitta marittima ottomani dai tempi di Lepanto (1571). Unica nota di merito ottomana fu l’azione del secondo ufficiale circasso Cezayirli Gazi Hasan Paşa, che riuscì a salvare molti uomini, trovando rifugio presso un prete ortodosso del luogo. Più tardi promosso al grado di ammiraglio, Hasan Paşa si impegnerà alla modernizzazione della flotta ottomana. Anche nella Georgia ottomana, governata da principi vassalli della Sublime Porta, la situazione peggiorò. Con la vittoria nella Battaglia di Aspindza (1770), i principi georgiani ottennero una maggiore autonomia, aprendo le porte a futuri accordi coi russi.

È nell’impresa di Orlov e nelle rivolte in Georgia che si inserì il “Progetto greco”, tentativo russo di espandere la propria egemonia sui Balcani cristiani. In quest’ottica, la Russia si impegnava a strappare agli Ottomani i possedimenti crimeiani, e il Caucaso fino ad annettere l’antica Trebisonda. Non a caso Caterina diede ai nipoti i nomi di Alessandro e Costantino. Al primo sarebbe spettato l’Impero russo, come avvenne nel 1801, mentre al secondo un mai realizzato Regno neobizantino che avrebbe compreso la Grecia orientale, le isole egee settentrionali, la Macedonia, la Bulgaria e Costantinopoli. Anche la Repubblica di Venezia avrebbe giovato, riannettendo il Peloponneso, Creta e Cipro, ed espandendosi in Albania. Un Regno unito di Valacchia e Moldavia avrebbe dato la corona a un altro favorito della regina, Grigorij Potëmkin.       

Nel febbraio 1774 Mustafa III morì e il figlio Abdül Hamid gli succedette. Di indole pacifica e religioso, e contro le prepotenze del corpo dei giannizzeri ormai preda di nepotismi, il nuovo Sultano cercò di scendere a trattative coi Russi. Nel giugno dello stesso anno il generale Aleksandr Suvorov inflisse un’altra sconfitta agli Ottomani nel paesino bulgaro di Kozludža (oggi Suvorovo, in onore del vincitore). La cavalleria russa catturò l’artiglieria ottomana, e l’esercito del Sultano fu costretto a ritirasi nella Bulgaria meridionale. E quando in Egitto e in Siria scoppiarono nuove ribellioni, Abdül Hamid ottenne la desiderata pace.

PARTE III: la pace e le conseguenze

Il 21 luglio 1774 a Küçük Kaynarca (oggi Kajnardža in Bulgaria) i due imperi firmarono la pace. I ventotto articoli del trattato furono redatti in russo, in turco ottomano e in italiano, questo utilizzato come lingua franca. In caso di incomprensioni fra i tre testi, quello in italiano sopravanzava. Con questo trattato, la Russia riceveva un indennità di guerra, otteneva i territori a nord del Khanato di Crimea, a cui fu concessa l’indipendenza dalla Sublime Porta. Ma nel 1783 Caterina annetté il Khanato, troppo debole per difendersi, nonostante le proteste ottomane. Gli insediamenti a nord della Crimea vennero chiamati Nuova Russia (Novorossija), e gli insediamenti dei coloni russi nei territori del Khanato stravolsero la demografia del luogo. Molti Tatari di Crimea lasciarono la penisola o divennero una minoranza. Altri si convertirono al Cristianesimo ortodosso e si russificarono. Caterina ordinò al favorito Grigorij Potëmkin di fondare nuove città, che dovevano richiamare agli antichi insediamenti greci o alla figura dell’Imperatrice. Sorsero le città di Odessa, Cherson e Ekaterinoslav, mentre i principali insediamenti tatari esistenti cambiarono nome, come nel caso di Simferopoli e Sebastopoli. Nel XIX secolo, queste città sarebbero divenute le mete estive preferite dell’aristocrazia russa, arricchendosi di ville e biblioteche. Molti autori russi trovarono in questi luoghi la loro ispirazione.

BIBLIOGRAFIA:

  • ARTËMOV Vladislav Vladimirovič, Velikie Imena Rossii, OlmaMediaGrupp, Mosca, 2015;
  • BUSHKOVITCH Paul, Breve storia della Russia,Einaudi, Segrate, 2013;
  • MANTRAN ROBERT, Storia dell’Impero Ottomano, Lecce, Argo, 1999.

UNITALIA (1861-2021)

FRANCESCO LANDI. Il Brigadier Generale di Calatafimi (1793-1861)

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PRIMI ANNI E FORMAZIONE

Figlio di un militare in congedo, Francesco Landi nacque a Napoli nel 1793. Quasi quattordicenne, entrò nella Reale Accademia militare del Regno di Napoli del nuovo insediato re Gioacchino Murat. Landi prese le parti di Murat anche nella guerra contro l’Austria del 1814-15, che portò alla deposizione dell’ex generale napoleonico. In questa occasione fu promosso capitano e fu insignito l’Ordine Reale delle Due Sicilie. Congedato alla fine della guerra, fu richiamato alle armi assieme ad altri generali napoleonici nel 1830. Sposatosi, ebbe cinque figli di cui due ammessi nella Guardia reale del corpo a cavallo. Anche gli altri tre, fra i quali Michele, seguirono la carriera militare.

Il 19 aprile 1860, nel quadro del rinnovamento dell’esercito borbonico di cui il re Francesco II si era reso promotore, Landi ottenne il grado di Brigadier generale, con l’ordine di soffocare i primi moti in Sicilia. Il 6 maggio, il giorno dopo la partenza dei Mille, partì da Palermo al comando di quattro compagnie di fanteria, uno squadrone di cacciatori a cavallo e quattro pezzi d’artiglieria, per un totale di circa tremila uomini. Tra i soldati c’era anche il figlio Michele. Il 12 maggio ricevette la notizia dello sbarco a Marsala. Il giorno dopo, il Brigadier generale giunse a Catalafimi.     

CATALAFIMI: BATTAGLIA, ESITI, MORTE

Il 15 maggio Landi mandò in esplorazione tre colonne, rimanendo in paese con le restanti truppe. Una delle colonne avvistò il nemico dal colle dove oggi sorge l’Ossario di Pianto del Romano, e attaccò. Lo scontro, conclusosi nel pomeriggio, consegnò la vittoria ai garibaldini. Landi evitò di mandare rinforzi poiché, come scrisse nella richiesta di soccorso inviata a Palermo, «le masse di Siciliani uniti alla truppa italiana sono di immenso numero». Con le truppe rimastegli,  il Brigadier generale ritornò a Palermo, evitando le resistenze degli insorti, con accaniti scontri. Nessun maggiore criticò la condotta di Landi, che rimase a Palermo partecipando alla sua difesa. Fu soltanto dopo la conquista garibaldina della città, fu sottoposto a giudizio. Durante il processo, ricevette la notizia della morte del figlio Francesco Saverio, membro della Guardia reale a cavallo, caduto nella Battaglia del Volturno.

Alla fine la commissione di inchiesta assolse tutti gli imputati, e Landi chiese il ritiro. Fu testimone dell’entrata di Garibaldi a Napoli, dove morì il 2 febbraio 1861 di pleurite. Subito dopo la sua morte, negli ambienti filoborbonici si vociferò del tradimento del Brigadier generale, che si sarebbe lasciato corrompere da Garibaldi col versamento di una polizza di credito di quattordicimila ducati, a suo nome, alla Banca di Napoli quale ricompensa. A questo si aggiungerebbe la morte di crepacuore, all’aver scoperto che i ducati versati fossero in realtà solo quattordici.

LA LETTERA DI GARIBALDI A MICHELE LANDI

Michele Landi, tra i più giovani dei figli di Francesco, si unì al 9° reggimento di cavalleria dell’esercito sardo dopo aver combattuto contro i garibaldini in Sicilia. Il 1° ottobre 1861 spedì da Bologna una lettera a Garibaldi, pregandolo di smentire le voci sul conto del padre. La risposta del Generale arrivò il mese dopo da Caprera:

«Mio caro Landi,  ricordo di aver detto nel mio ordine del giorno di Calatafimi che  non avevo veduto ancora soldati  contrari combattere con più valore; e le perdite da noi sostenute in quel  combattimento lo provavano bene. Circa i quattordici mila [sic] ducati  ricevuti dal vostro bravo Genitore in  quella circostanza – potete assicurare gl’impudenti giornalisti che ne insultano la memoria, – che 50 mila [sic] lire era  il capitale che corredava la prima  spedizione in Sicilia, e che servirono ai bisogni di quella, non a comperar  Generali. Sorte dei Tiranni! Il Re di Napoli doveva soccombere! Ecco il  motivo della dissoluzione del suo esercito. Ma vostro padre a Calatafimi e nella sua ritirata su Palermo, fece il  suo dovere da soldato! Dolente in quanto avete perduto, vogliate presentarmi alla vostra famiglia come un amico e credermi con  affetto. V.ro  G. Garibaldi».

BIBLIOGRAFIA: