EVENTI CELESTI NEL MEDIOEVO

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Per secoli generazioni di cronisti e letterati medievali hanno riportato nelle loro opere testimonianze di strani eventi celesti principalmente eclissi e passaggi di comete, all’epoca fenomeni completamente inspiegabili e misteriosi.
Questi fenomeni generavano meraviglia ma soprattutto timore negli occhi degli spettatori, che in seguito li interpretavano come vere e proprie avvisaglie profetiche, anticipatrici di eventi più o meno funesti che sarebbero scaturiti di li a poco.
I più comuni sono le epidemie e le morti di cariche ecclesiastiche importanti, come abati o vescovi, ma anche importanti cariche laiche, come sovrani o imperatori.
Ma ecco alcune di queste testimonianze che ho ripreso da alcuni testi medioevali.
Numerose provengono dalle “Storie” di Rodolfo il Glabro, che scrive :”Venerdì 29 giugno dell’anno millesimo dalla passione di Cristo si ebbe un’agghiacciante eclissi, ossia mancanza di Sole, durata dall’ora sesta fino all’ottava”, poi aggiunge :”allora uno sbigottimento, un terrore sconfinato invase il cuore di ognuno: chiunque osservava il fenomeno intuì che esso annunziava qualcosa di infausto, una disgrazia che stava per abbattersi sull’umanità”, e conclude che proprio in quel giorno dei congiurati attentarono alla vita del pontefice, fallendo.
Nella stessa opera Rodolfo scrive :”Quattro anni più tardi, mercoledì 22 agosto […] all’ora sesta si ebbe una nuova eclissi di Sole. In quello stesso anno morì in Sassonia l’Imperatore Corrado.”
Nella Historia Longobardorum di Paolo Diacono, l’eclissi di Luna e di Sole del 680 d.C. preannunciarono una terribile pestilenza, che durò tre mesi.
Nell’opera cronachistica medievale nota come “Annales Cambriae”, è riportata un’altra eclissi di Sole, questa volta però senza apparenti consequenze nefaste, così è scritto “1288. Nel secondo giorno di aprile trascorsa la nona ora, è vista un eclissi nella parte superiore del Sole, che oltrepassa in seguito la materia del Sole, così che il Sole è visto come avere due corna alzate, e durò fino all’ora del vespro”.
Nel III libro delle “Storie”, Rodolfo il Glabro annota invece il passaggio di una cometa, che restò nel cielo per circa tre mesi e dopo il suo passaggio la chiesa del Beato Michele Arcangelo venne bruciata.
L’autore non mette in discussione la connessione tra il fenomeno sovrannaturale e l’importante evento che avviene sulla Terra poco dopo, come scrive in questo passaggio :” Un fatto è però dimostrato con certezza: tutte le volte che un fenomeno del genere appare ad occhio umano, esso annunzia per l’immediato futuro, con chiara evidenza, qualche avvenimento straordinario e terribile”.
Probabilmente la cometa descritta in precedenza è quella di Halley (1P/989 N1), passata, secondo i calcoli, tra l’agosto ed il settembre del 989 d.C. e che si pensava preannunciasse la fine del mondo.
Un’ulteriore passaggio di una cometa, questa volta non temporalmente coincidente con quella di Halley è brevemente accennata nel IV libro della Historia Longobardorum, il cui transito, gennaio 595, è considerato la causa della successiva morte dell’arcivescovo di Ravenna, Giovanni.
Per trovare una vera è propria definizione e non solo una mera descrizione del fenomeno, bisogna cercare nell’opera di Isidoro di Siviglia, “Etimologia”, in cui definisce la cometa come una stella, chiamata in questo modo perché diffonde i capelli della sua luce, affermando che quando questo tipo di stella appare provoca epidemie, carestie e guerre, come in precedenza appuntato da Rodolfo il Glabro.

FONTI:

  • Annales Cambriae, edited by John Williams, Cambridge Library Collection, Torrazza Piemonte, 2012.
  • R. IL GLABRO, Storie, a cura di Guglielmo Cavallo e Giovanni Orlandi, A. Mondadori Editore, Borgaro Torinese, 2011.
  • P. DIACONO, Storia dei Longobardi, a cura di Antonio Zanella con un saggio di Bruno Luiselli, Bur Rizzoli, Milano, 2018.

MASSIMINO, UN BARBARO SULLA VETTA DEL MONDO (235-238 d.C.)

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Massimino nasce in Tracia nel 178 d.C., secondo le fonti letterarie, da padre goto e madre alana.
Distintosi per le sue abilità militari, divenne ben presto centurione sotto il regno di Settimio Severo e di suo figlio Caracalla.
A seguito di un parziale ritiro dopo la morte di quest’ultimo, riottenne incarichi militari sotto il principato di Alessandro Severo, divenendo tribuno della IV legione Italica, di stanza in Germania Superiore.
Grazie alla sua straordinaria statura, circa 232 cm, e alla sua notevole prestanza fisica, venne molto ammirato dai suoi soldati, che più volte lo paragonarono ad Ajace o a Ercole.
Lo stesso imperatore decise di concedere sua sorella in sposa al figlio di Massimino.
Ma l’impero di Alessandro dovette ben presto subire un notevole grado di pressione lungo i confini sia orientali che danubiani, vedendosi minacciato dalla belligerante dinastia sasanide e dai popoli germani, che iniziavano a premere lungo il limes settentrionale, e che già dal regno di Marco Aurelio si erano spinti fino all’importante città di Aquileia, in Italia.
Alessandro però non riuscì a contrastarli, cadendo vittima di una congiura in seno alle truppe legionarie.
Queste davano segni di malcontento, volendo trovarsi sotto il comando di un vero soldato, che si prodigasse nel distribuire il tesoro imperiale tra i suoi soldati, invece di un imperatore considerato troppo influenzato dagli uomini a lui vicini, come definisce Gibbon “un timido schiavo di sua madre e del senato”.
Il 19 marzo del 235 si consumò l’assassinio, anche se le fonti sono discordanti nella sua descrizione.


Massimino venne così elevato al rango imperiale dalle sue fedeli truppe, instaurando un regno che Gibbon definisce sanguinario, ma che nell’immediato riuscì a ripristinare l’integrità del confine danubiano, grazie alla campagna contro gli Alemanni tra il 235 ed il 236, culminata con la battaglia di Hanzhorn, e alle campagne contro i Quadi e i Carpi tra il 236 ed il 237.
Non riuscì tuttavia a respingere efficaciemente le devastanzioni portate dai Sasanidi ad oriente nel 238, che riuscirono ad occupare una parte della regione dell’Osroene, occupando la città di Carrae.
Se ci si può considerare soddisfatti per i numerosi successi militari, ci si rende conto dall’altro lato, come coltivò pessimi rapporti con il Senato, aumentando il prelievo fiscale e facendo numerose confische per finanziare le sue campagne in Germania.
Le prime cospirazioni ai suoi danni non tardarono a manifestarsi, come quella del console senatoriale Magnus, poi scoperto e giustiziato.
La condotta fiscale generò forti malcontenti in varie province dell’Impero, tra le quali spicca l’Africa, luogo di un’estesa rivolta che portò all’uccisone del procuratore imperiale e all’elevazione al rango imperiale dell’ottantenne Gordiano e di suo figlio Gordiano II.
Dal 2 aprile 238 erano presenti nell’impero tre imperatori.


Il senato non poteva stare a guardare e decise di approvare l’elezione dei Gordiani, molto apprezzati tra le file dei senatori, che con loro speravano di restaurare l’antico e definitivamente perduto splendore della repubblica, sconfiggendo l’odiato usurpatore barbaro.
A Roma iniziò così un esteso sentimento di rivoluzione, supportata dalle guardie pretoriane, difensori dell’Urbe.
Vennero poi scelti 20 consoli di estrazione senatoriale per attuare le operazioni militari in vista dell’arrivo del temuto esercito di Massimino, che da Singidunum, l’odierna Belgrado, si stava avvicinando al territorio italico.
La rapida ascesa dei Gordiani tuttavia rispecchiò tristemente la loro altrettanto rapida fine, con l’intervento del governatore della Numidia, Capelliano, al comando della III legione Augusta, che diede battaglia a Gordiano II nei pressi di Cartagine, uccidendolo e procurando il successivo suicidio del padre.
Il terrore si diffuse così tra gli abitanti di Roma e tra i senatori, che pur tuttavia riuscirono a reagire e a nominare come nuovi imperatori Pupieno e Balbino, anche se la folla romana acclamava a gran voce l’elezione dell’adolescente Gordiano III, che venne così nominato Cesare dei due Augusti.
Essendo stato dichiarato dal senato Hostis Publicus, Massimino si preparò a svernare in Italia dalle Alpi Giulie, con un gran numero di soldati esperti, inquadrati nelle legioni pannoniche, che nel 235 d.C. erano la X e la XIV Gemina e la I e la II Audiutrix, per un totale di circa 25.000 uomini.
Insieme alle truppe legionarie inoltre, Massimino raccolse anche un certo numero di unità ausiliarie germaniche.
L’invasione del nord-est inizia nei primi mesi del 238 d.C., e fin da subito la situazione diventa sfavorevole agli armati di Massimino, essendo le campagne state depauperate di viveri, immagazzinati nelle grandi città della regione.
Quando così Massimino decise di porre l’assedio alla città di Aquileia, si ritrovò di fronte una roccaforta ben difesa, guidata dai luogotenenti Crispino e Menofilo, ma soprattutto in grado di resistere per mesi ad un assedio.


Dall’altra parte invece, le truppe dell’imperatore si ritrovarono ben presto a corto di rifornimenti e di viveri, facili prede della fame e delle malattie.
L’ammirazione e la fedeltà verso il proprio comandante si trasformò rapidamente in odio e opposizione, finchè le truppe della II legione Parthica decisero di assassinare sia Massimino che suo figlio il 10 maggio 238, liberando Roma dalla sua minaccia.
Il giorno seguente gli stessi Pupieno e Balbino trovarono la morte per mano pretoriana, che decidono di elevare a imperatore Gordiano III.

FONTI:

  • C. BADEL, H. INGLEBERT, L’impero romano in 200 mappe, Leg edizioni, Gorizia, 2015.
  • A. BARBERO, Barbari, immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Editori Laterza, Bari, 2006.
  • A. FREDIANI, L’incredibile stori di Roma antica, Newton Compton Editori, Roma, 2016.
  • E. GIBBON, The history of the decline and fall of the Roman Empire, Abridged Edition, Penguin Group, Londra, 2005.

LA BATTAGLIA DI MANSURAH (8 febbraio 1250)

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PROTAGONISTI:

  • LUIGI IX, insieme alle truppe crociate
  • Fakhr al-Din Ibn Shaykh al-Shuyukh e Bairbas, insieme alle truppe arabe e beduine.

CONTESTO:

Pontoise, nord-ovest di Parigi, 1245.

Il regno di Francia rimane con il fiato sospeso per le sorti del suo amato sovrano, re Luigi IX, profondamente malato e prossimo alla morte. Da una condizione di estrema precarietà fisica tuttavia, come ci racconta Jean de Joinville, Senescalco della regione dello Champagne, il sovrano passa repentinamente ad una migliore situazione medica e fisica, per lui chiaro segno della benevolenza e del volere divino.

Nel fervente credente, qual’è in effetti Luigi, si genera così una forte volontà di prendere la croce e di partire per una possibile crociata contro gli infedeli musulmani in medioriente.

Inamovibile contro qualsiasi perplessità della corte, con lui decidono di partecipare all’impresa anche i suoi tre fratelli: Carlo, conte d’Angiò, Roberto, conte d’Artois e Alfonso III, conte di Poitiers.

Il piano per intraprendere questa spedizione è pressoché abbozzato, ponendosi come obbiettivo il più ricco e importante dei domini arabi, l’Egitto, in quell’epoca governato dalla dinastia Ayyubide, inaugurata dal famoso condottiero musulmano Saladino alla fine del XII secolo.

La partenza per l’oriente viene effettuata nel 1247, nel porto di Aigues Mortes nel sud della Francia, mentre l’arrivo degli armati a Cipro, scalo fondamentale per le azioni navali e terrestri in Terrasanta, avviene il 21 settembre del 1248.

Al Cairo il sultano al-Salih Ayyub prende atto della possibile invasione del nemico europeo e investe molte energie nel rafforzamento difensivo delle coste egiziane, soprattutto nei pressi di Alessandria e Damietta.

Il 30 maggio del 1249, forte della notevole cifra di 1800 imbarcazioni, Luigi IX salpa in direzione dei territori del Sultano.

Le avverse condizioni metereologiche però, causano notevoli perdite alla sua flotta, costringendolo ad aspettare, prima dello sbarco, le truppe del duca Ugo IV di Borgogna, del conte Guglielmo II di Longespee e del principe d’Acaia Guglielmo II di Villeharduin.

Il 5 giugno le truppe sbarcano senza troppi intoppi nei pressi di Damietta, in seguito occupata.

L’assenza di una vera e propria resistenza è dovuta allo scompiglio decisionale avversario causato dallo stato di grave indecenza medica in cui versava il sultano.

In seguito all’arrivo dei rinforzi del conte di Poitiers, il sovrano con i suoi fidati sostenitori discutono sulle successive mosse da intraprendere, Alessandria o Cairo ?

Molti tra i presenti, tra i quali l’impetuoso conte d’Artois, fratello del re, optano fermamente per la seconda, mentre altri per la prima. Alla fine Luigi IX decide di seguire coloro che premono per un attacco diretto al cuore politico della dinastia Ayyubide, il Cairo.

La marcia inizia in 28 novembre 1249 e dopo aver fatto varie tappe lungo la sponda del fiume Nilo, Luigi IX decide di sistemare il campo dell’armata sulle rime del fiume Bahr As-Jaghir, nelle vicinanze della città di Mansurah, a ridosso della quale viene imbastito anche l’accampamento arabo.

Nel medesimo periodo il sultano muore e viene eletto come suo successore Fakhr ad-Din ibn al-Shaykh, denominato dai cristiani Scecedin.

L’obbiettivo cristiano era quello di costruire un ponte per permettere il passaggio del grosso dell’esercito e così marciare verso Mansurah e scacciare l’esercito nemico.

Tuttavia la costruzione di questo ponte si rivela fin da subito molto ardua, più volte infatti esso crolla a causa dell’imperizia degli ingegneri occidentali, causando l’aumento del morale degli invasi, che riescono a lanciare sempre più frequenti assalti al campo cristiano, grazie ad un passaggio del fiume nei pressi della città di Sharamsah.

L’accampamento occidentale deve essere quindi difeso con più efficacia, e si decide quindi di posizionare le truppe di Carlo d’Angiò a presidio dell’area sud, rivolta verso il Cairo, mentre Alfonso di Poitiers, insieme alle truppe di Joinville, difendono l’area nord, verso Damietta.

Nei ripetuti assalti musulmani di dicembre, viene utilizzato varie volte quello che Joinville descrive come “un drago che stava volando attraverso l’aria”, cioè il fuoco greco, miscela infiammabile molto efficace utilizzata nel medioevo in area mediorientale.

Ovviamente l’utilizzo di quest’arma pone in svantaggio le truppe francesi, non solo da un punto di vista militare, ma anche da un punto di vista psicologico, creando panico e molta preoccupazione nel cuore dei crociati e dello stesso sovrano.

LO SCONTRO:

La fortuna sembra ritornare dalla parte di Luigi quando un beduino, sotto ingente pagamento, avvisa della presenza di un passaggio sicuro per attraversare il fiume a pochi chilometri dall’accampamento.

Luigi allora, insieme ai suoi tre fratelli decidono di scatenare la prima vera offensiva della campagna, è l’8 febbraio 1250.

Il contingente, formato da un corpo centrale più lento in cui vi è la presenza del sovrano, è costituito da un’avanguardia di Templari guidata dal Gran Maestro Rinaldo di Vichiers, ed è seguita dal battaglione di Roberto d’Artois.

L’imprudenza e la spavalderia di quest’ultimo tuttavia, lo incitano a lanciarsi all’inseguimento delle prime truppe nemiche che scorge oltre il fiume, staccandosi dalla restante parte dell’esercito.

Questa mossa viene subito riconosciuta come un grave errore tattico e un grande disonore arrecato alle truppe del tempio, che, per ordinanza regia, avevano il diritto di attaccare per prime il nemico.

L’avventatezza del conte tuttavia, almeno inizialmente, riesce a cogliere completamente impreparate le difese del campo avversario, il quale viene attaccato e molti armati nemici, tra i quali lo stesso emiro Fakhr al-Din Ibn Shaykh al-Shuyukh trovano la morte. La ritirata musulmana finisce all’interno delle mura di Mansurah, dentro le quali Roberto riesce a continuare il suo inseguimento, incurante del incombente pericolo per le sue irrisorie truppe.

Compresa l’esigua entità delle forze giunte a Mansurah, gli Ayyubidi, sotto il comando dell’emiro Bairbas, chiudono le vie d’uscita dalla città, intrappolando Roberto con 300 dei suoi.

La notizia giunge a Luigi, che ordina ai reparti di cavalleria, tra cui vi è anche Joinville, di liberare suo fratello.

La cavalleria però si trova in difficoltà, non riuscendo a mantenersi compatta ed in balia di un soverchiante numero di nemici. Carlo d’Angiò allora, insieme alle truppe reali, si precipitano in soccorso di Joinville e degli altri gruppi di cavalieri, permettendo così la loro salvezza ed il ritiro delle truppe nemiche.

L’armata, mantenendosi costantemente non troppo lontano dalle unità di supporto del duca di Borgogna, rimaste a difesa dell’accampamento, è però minacciata e sfiancata dal continuo bersagliamento delle unità a cavallo arabe.

La ritirata è dunque necessaria, Luigi riesce tuttavia a sistemare l’esercito nell’accampamento musulmano, in precedenza abbandonato dagli infedeli.

La nuova posizione si ritrova però ben presto accerchiata, dopo pochi giorni, dalle truppe fresche del generale Bairbas, che dispone di 4000 cavalieri, 3000 beduini e svariate truppe appiedate.

I beduini sono i primi che lanciano l’assalto, indirizzato verso la zona difesa dalle unità di Carlo d’Angiò, che viene immediatamente supportato dalle truppe regie.

La difesa crociata è così suddivisa:

A fianco dei battaglioni di Carlo ci sono quelli dei crociati di Cipro e di Terrasanta, comandati dai fratelli Goffredo e Baldovino di Ibelin.

In seguito si trovano i battaglioni di Walter di Chatillon, mentre gli uomini di Joinville combattono alla sinistra delle truppe del conte di Fiandra, a sua volta affiancato da Guy de Mauvoisin.

Se queste truppe sopportano bene gli scontri grazie alla presenza di reparti di cavalieri, le truppe guidate da Alfonso di Poitiers non riescono a reggere l’urto nemico, venendo sopraffatte. Lo stesso conte rischia la cattura.

CONCLUSIONE:

A seguito di questi scontri, che tuttavia riescono a respingere le varie sortite nemiche, Luigi IX mantiene la posizione, per poi iniziare una lenta ritirata verso Damietta nella primavera del 1250, a seguito di una grave epidemia scoppiata all’interno del campo, aggravata da una forte carestia.

Anche se Luigi ed il sultano sono pronti per attuare dei negoziati per far finire le ostilità, le cose tuttavia non vanno per il verso giusto ed il sovrano francese viene catturato nella località di Moniat Abdallah, mentre il sultano viene ucciso dagli emiri, ed in particolare da Faras ad-din Aktav, per paura di essere in futuro giustiziati dal sultano a causa del loro accresciuto potere durante gli eventi bellici.

Così si conclude dal punto di vista militare la campagna egiziana, anche se, una volta liberato Luigi IX, a seguito di un’ingente riscatto di 500.000 livres, la crociata finirà solamente quattro anni dopo in Terrasanta.

FONTI:

IL SACCO DI ROMA (1527)

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PROTAGONISTI:

  • Stato Pontificio: Clemente VII
  • Regno di Francia: Francesco I
  • Possedimenti asburgici: Carlo V

CONTESTO:

Nel 1494, quando il sovrano di Francia Carlo VIII decise di far valere i propri diritti sul Regno di Napoli, nessun uomo politico italiano si sarebbe mai immaginato l’inizio di una repentina decadenza politico militare della penisola, oggetto delle contese e degli intrighi di corte delle principali potenze europee, in primis Francia e Spagna.
Il proseguo dei conflitti tra questi due paesi sembrò giungere a una svolta decisiva nel fatidico 1525, anno dell’umiliante sconfitta dell’esercito reale francese a Pavia, difesa da un manipolo di armati spagnoli.
Lo stesso sovrano dell’epoca, Francesco I, subì, a seguito dello scontro, il gravoso peso della prigionia da parte dell’Imperatore Carlo V.

SVOLGIMENTO:

Una volta rimesso in libertà, dopo tredici mesi, Francesco I non solo non assecondò nessuna clausola concordata per il suo rilascio, ma ordì anche un’alleanza con il Papa Clemente VII, Firenze, l’Inghilterra e Venezia, denominandola Lega di Cognac.
In principio quest’alleanza doveva contrastare le azioni militari del Duca di Borbone, abile condottiero al servizio di Carlo, intento ad assediare la città di Milano, occupata nel 1525 da Francesco I prima della disfatta.
Purtroppo la mancanza di coesione tra i coalizzati creò fin da subito delle notevoli difficoltà.
Lo stesso Sovrano francese, ancora scosso dalla recente prigionia, tentennò nell’attuare rapide manovre militari, penalizzando i suoi alleati, primo tra tutti lo stesso Clemente VII, che, come ci narra il Guicciardini nelle sue storie d’Italia, ricevette meno della metà degli aiuti finanziari previsti.
Clemente VII fu perciò costretto ha servirsi delle sole forze degli alleati italici, che assemblarono un esercito al comando del Duca d’Urbino Francesco Maria della Rovere.
I ritardi nell’organizzare ciò, tuttavia, causarono l’inesorabile caduta della città ambrosiana, permettendo agli spagnoli di impadronirsi della Lombardia e di impegnare l’esercito alleato in piccole schermaglie locali.
In una di queste morì il famoso condottiero di ventura Giovanni dalle Bande Nere, padre del futuro Granduca di Toscana Cosimo I de Medici.
In Spagna Carlo V, esacerbato dal discutibile atteggiamento pontificio, incentivò i Colonna, potente famiglia romana, a creare scompiglio nella capitale laziale, costringendo il Papa stesso a trovar rifugio nella roccaforte di Castel sant’Angelo.
La reazione papalina non si fece attendere, erodendo il potere dei Colonna a Roma e distruggendone molte Torri, simboli del loro prestigio che da secoli mantenevano nella città.
A questo punto Carlo V decise di dare un ulteriore lezione a Clemente, e ordinò al Borbone di partire dal nord italia in direzione di Roma.
A Carlo III di Borbone si allegarono anche 16.000 uomini al comando del generale Frundsberg.
Nel Gennaio del 1527 il Borbone, arrivato a Bologna, fu costretto a raziare i territori limitrofi a causa della situazione disperata in cui versavano le sue truppe.
Clemente VII, disperato dal grave deterioramento della situazione provò a corrompere gli armati nemici concedendogli circa 100.000 ducati, i quali vennero però rifiutati dalle furibonde truppe imperiali, desiderose di vendicarsi del pontefice, identificato come la causa principale di tutti i mali della chiesa cristiana.
La diplomazia pontificia decise allora di giungere ad una tregua con il vicereame di Napoli, possedimento spagnolo da circa un paio di decenni, così da indurre il Borbone a concludere le operazioni militari.
Purtroppo per la Lega, neppure questa soluzione ebbe un esito felice, ed il generale spagnolo si prestava a raggiungere e a minacciare la Toscana.
Francesco della Rovere allora, ritenendo più verosimile un’attacco nemico alla città fiorentina, concentrò nella regione la maggior parte delle proprie truppe, lasciando quasi completamente sguarnita l’Urbe.
Il tanto temuto assalto ai domini medicei tuttavia non avvenne, e il 5 maggio 1527 l’armata borbonica giunse in vista della città di Roma, accampandosi vicino a Isola Farnese.
In seguito gli armati occuparono il Giannicolo, arrivando molto vicino al Vaticano.
Immediatamente ci fu il primo attacco, concentratosi tra Porta Cavalleggeri ed il Bastione Santo Spirito.
Tra i difensori delle mura spiccò il comandante Lorenzo Orsini, che riuscì a respingere il primo assalto.
All’alba del 6 maggio ci fu il secondo, a causa del quale le difese cittadine vennero infrante, dando così iniziò al tremendo sacco, che solo quel giorno provocherà immense devastazioni e più di 6000 morti.
In questa carica trovò la morte, a causa di un proiettile d’archibugio, lo stesso Borbone, all’epoca trentasettenne.
Per sfuggire alla furia imperiale, Clemente decise di ritirarsi per la seconda volta nella fortezza di Castel sant’Angelo, da dove potè coordinare la resistenza per alcuni mesi, sperando nell’intervento delle truppe di della Rovere.
Quest’ultimo diede più volte false speranze al Papa, accampandosi fuori le mura di Roma per poi ritirarsi, permettendo così il perpetrarsi della permanenza nella città degli imperiali.
Il suo comportamento probabilmente fu causato da ostilità nei confronti di Clemente per delle controversie dinastiche e territoriali per il controllo del Ducato di Urbino.
Il 6 giugno 1527 Clemente decise di arrendersi, cercando di trovare un accordo finanziario con gli occupanti, ma alla fine scappando di soppiatto nella città umbra di Orvieto.
Il dominio imperiale durò per altri mesi, fino al 1528, quando le ultime truppe rimaste in città vennero scacciate dal generale francese Lautrec.


CONCLUSIONE:


La scioccante caduta di Roma fece presagire la soppressione dello stato Pontificio, cosa che non avvenne grazie soprattutto alla difficile situazione religiosa che doveva affrontare Carlo V in Germania, dove i principi Luterani si stavano rafforzando, minacciando la sua autorità politica e religiosa.
Era quindi necessario mantenere uniti in una forte alleanza, il Papa e l’Imperatore, anche se ben presto si rivelò una vera e propria sudditanza del primo verso il secondo.
Quest’ultimo venne consacrato dal pontefice a imperatore nel 1530 a Bologna, seppur la nomina fosse stata confermata nel decennio precedente, creando così una sorta di continuità legittimale con Carlo Magno. Carlo V dovette tuttavia combattere per molti altri anni contro le forze protestanti, le armate francesi e gli infedeli Ottomani, non raggiungendo mai una decisiva vittoria e una conseguente stabile pace.

FONTI:

  • PELLEGRINI, M., Le guerre d’Italia 1494-1559, Il Mulino Editore, Bologna, 2017.
  • YOUNG, G. F., I Medici, Salani Editore, Milano, 2016.
  • GUICCIARDINI, F., Opere, storia d’Italia, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino.

LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI E L’IMPERO LATINO (1204-1216)

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PROTAGONISTI:

  • Impero Bizantino: Alessio III, Isacco II, Alessio IV, Alessio V
  • Impero Latino: Baldovino di Fiandra, Enrico di Fiandra
  • Venezia: Enrico Dandolo
  • Impero di Nicea: Teodoro I Lascaris
  • Regno d’Epiro: Michele I Angelo
  • Sultanato di Iconio

Verso la fine del XII secolo nell’Impero Bizantino si consumarono gli ultimi atti di una forte crisi che, agli occhi di numerosi storici, colpì Costantinopoli sotto vari punti di vista, vedendone i podromi già nella prima metà dell’XI secolo, poco dopo la morte dell’imperatore Basilio II nel 1025.

Questa crisi raggiunse il suo apice tra il 1180 ed il 1195.

Innanzitutto un grave deterioramento del potere centrale, per molti secoli punto cardine della potenza e dell’efficienza burocratica bizantina.

Il risultato che questo provocò fu una sempre maggiore mancanza di controllo amministrativo nei territori periferici, diffondendone rapidamente violenti moti di ribellione, che culminarono con l’indipendenza della Bulgaria nel 1185.

L’esercito imperiale era quasi interamente costituito da truppe mercenarie europee o asiatiche, che ne aumentavano la professionalità ma ne diminuivano la tenuta in battaglia, il senso di attaccamento all’imperatore e venivano a essere un notevole peso fiscale per le finanze statali.

Infine l’ingerenza commerciale Veneziana e Genovese nell’Egeo soffocava l’economia bizantina, costretta a cedere privilegi sempre maggiori ai mercanti delle due città portuali d’Italia.

Venezia, in particolare, cercò in tutti i modi di contrastare il potere genovese nel Mediterraneo orientale, cresciuto vertiginosamente grazie all’impiego delle proprie flotte durante le Crociate dell’XI secolo.

Sfruttando l’ancora vivo sentimento per la guerra santa contro gli infedeli musulmani per la liberazione del Santo Sepolcro, l’astuto Doge Enrico Dandolo riuscì a far indire dal Pontefice una nuova Crociata, indirizzata, secondo i piani originali, verso i ricchi territori egiziani.

Ben presto, tuttavia, l’abile diplomazia veneziana modificò a proprio vantaggio gli obbiettivi della spedizione, lanciandola nel 1202 contro la città ribelle di Zara, lungo la costa Dalmata.

L’anno seguente i veneziani giunsero ad un accordo con Isacco II e suo figlio Alessio.

Isacco, imperatore di Bisanzio dal 1185 al 1195, era stato detronizzato dall’usurpazione di Alessio III, che sedeva ancora al trono.

L’obiettivo per Isacco e suo figlio era quindi riprendersi con l’appoggio occidentale il controllo dell’impero, anche concedendo un cospicua parte di sovranità ai potenti veneziani.

Dopo un breve e vittorioso attacco a Costantinopoli, nel luglio del 1203, Alessio riuscì a diventare imperatore, il quarto del suo nome.

Il rapido successo dell’operazione svanì quando, a seguito di un’insurrezione cittadina, Isacco II e Alessio IV vennero detronizzati da Alessio V.

Quest’azione fu il segnale che costrinse i crociati ad intervenire, espugnando e saccheggiando la capitale nella primavera del 1204.

L’impero dunque si ritrovò ad essere spartito tra i vincitori, primi fra tutti i veneziani, che ottennero il totale dominio navale ed economico dell’Egeo e del Mediterraneo orientale.

Nei Balcani si vennero a creare un agglomerato di regni feudali più o meno estesi, legati da blandi vincoli di fedeltà a nuovo imperatore di Bisanzio.

Costantinopoli si trovò infatti ad essere il nucleo del cosiddetto Impero Latino, comprendente grossomodo il territorio tracico e avente come nuovo imperatore Baldovino di Fiandra.

La seconda città del defunto impero romano, Tessalonica, venne concessa al Marchese Bonifacio del Monferrato, comandante in capo dell’esercito crociato.

Il potere di quest’ultimo si estendeva anche in Attica ed in Beozia, guidata da Ottone de la Roche.

Nel Peloponneso padroneggiava invece Goffredo di Villehardouin, che riuscì ad instaurare il Principato d’Acaia, una vera e propria colonia francese in territorio greco.

Attriti di stampo religioso e sociale tuttavia deteriorarono ben presto i già delicati rapporti tra la popolazione greca e i dominatori occidentali.

Questo costrinse molti ex-sudditi imperiali ad andare a rifugiarsi negli ultimi tre stati rimasti nelle mani di potenti dinastie bizantine.

In Asia minore permanevano infatti:

L’Impero di Nicea, guidato dall’abile Teodoro I Lascaris e l’Impero di Trebisonda, controllato da Alessio e David Comneno.

Michele I Angelo, infine, era il sovrano del Regno d’Epiro, l’unico dominio bizantino nei Balcani.

Tra questi, Teodoro I Lascaris si ritrovò a dover rispondere agli attacchi dell’Impero Latino, che nel 1204 decise di lanciare un attacco in Asia Minore.

L’offensiva, condotta da Enrico di Hainaut e da Ludovico di Blois, ottenne un’iniziale vittoria a Poimanenon, per poi interrompersi improvvisamente a causa di urgenti problemi sul fronte balcanico.

In Tracia infatti, Costantinopoli si ritrovò a dover arginare un’improvvisa invasione bulgara condotta dallo Zar  Kalojan.

La guerra si concluse con una completa disfatta Latina ad Adrianopoli nell’aprile 1205, che provocò la parziale perdita della Tracia settentrionale e la cattura dello stesso imperatore Baldovino I.

Una volta saputa la sua morte in prigionia, Enrico di Hainaut venne incoronato imperatore di Costantinopoli nel 1206, normalizzando i rapporti diplomatici con l’Impero di Nicea l’anno successivo.

In quegli anni venne firmata un’intesa tra il Regno d’Epiro e l’Impero Latino che si concluse con la liberazione del vecchio usurpatore Alessio III, dal 1204 in mano agli europei.

Alessio III, convinto di potesi impadronire facilmente dei domini di Teodoro I Lascaris, riuscì ad allearsi e ad essere ospitato alla corte del Sultanato turco di Iconio.

La guerra che ne derivò si concluse nel 1211, con la vittoria finale dell’esercito niceano.

Contemporaneamente alla vittoria ad oriente, Teodoro dovette subire la seconda invasione latina condotta da Enrico, che anche in questa situazione riuscì a vincere l’esercito avversario in una battaglia campale, a Rindaco.

Per mancanza di ulteriori risorse tuttavia, entrambi i sovrani dovettero giungere ad una pace, conclusasi nel 1214.

Con la morte dell’energico Enrico nel 1216, iniziò una nuova fase della politica balcanica segnata dall’inarrestabile decadenza dell’Impero Latino e dalle lunghe guerre tra Bulgaria, Epiro e Nicea per il controllo della città di Costantinopoli, che porterà nel 1261 alla sua conquista da parte delle truppe niceane condotte da Alessio Strategopulo.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

  • Warren TREADGOLD, Storia di Bisanzio, Il Mulino Editore, Bologna, 2019
  • George OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, Einaudi Editore, Trento, 2020

UNITALIA (1861-2021)

ALFONSO LA MARMORA (1804-1878)

Nato a Torino dall’illustre famiglia dei Marchesi di La Marmora, il piccolo Alfonso venne fin da piccolo spedito all’accademia militare di Torino, dove rimase dal 1816 al 1822, andando poi ad approfondire gli studi sull’organizzazione dell’artiglieria in Prussia.

Nel 1848 prese parte alla prima guerra d’indipendenza, dichiarata il 23 marzo dal re di Sardegna Carlo Alberto contro l’Austria.

Tra i motivi dell’attacco si possono annoverare:

il desiderio di estendere i domini piemontesi alla ricca regione lombardo-padana; assopire i moti repubblicani scoppiati a Milano e a Venezia per osteggiare il dominio asburgico; la pressione dell’opinione pubblica, sempre più favorevole alla lotta per l’unità e all’indipendenza d’Italia.

La Marmora inizialmente partecipò alla guerra come luogotenente, ottenendo, in seguito, il comando d’artiglieria della divisione Federici, grazie al quale contribuì alla vittoria sabauda a Pastrengo il 30 aprile.

Il mese successivo suo fratello Alessandro fu protagonista della seconda vittoria contro gli Asburgici a Goito, permettendo all’esercito piemontese di minacciare il Veneto austriaco.

Sconfitto a Custoza il 25 luglio 1848, Carlo Alberto ripiegò a Milano, dove fu costretto a firmare il 5 agosto l’armistizio col nemico, ormai in procinto di riconquistare il capoluogo lombardo e tutta la regione.

Alfonso La Marmora supportò e contribuì all’evacuazione del sovrano grazie al comando di un battaglione della brigata Piemonte e di una compagnia di bersaglieri.

Dopo la definitiva disfatta a Novara il 23 marzo 1849, La Marmora venne inviato a sedare una rivolta antimonarchica a Genova. L’intervento, nel bene e nel male, fu gravido di conseguenze.

Dalla violenza e risolutezza della repressione gli venne affibbiato dall’opinione pubblica l’appellativo poco lusinghiero di “cannoneggiatore del popolo”, mentre a livello ufficiale gli venne concessa la medaglia d’oro al valor militare, ottenendo inoltre il comando del secondo corpo d’armata.

Nel 1855, grazie all’intervento piemontese nella Guerra di Crimea, La Marmora divenne comandante supremo del contingente militare sabaudo, composto da circa 20.000 uomini.

Queste truppe si distinsero nella vittoria della Cernaia, avvenuta il 16 agosto del 1855 contro l’esercito dell’impero russo.

A conflitto concluso, Alfonso divenne un vero e proprio eroe nazionale ed internazionale, ottenendo approvazione anche dal governo ottomano per le sue imprese in Crimea.

Nel 1856 gli venne conferito il collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, accettando inoltre il prestigioso incarico di generale d’armata.

Dopo l’avventura Garibaldina e l’ingresso delle regioni meridionali al neo-costituito Regno d’Italia, il generale divenne prefetto e comandante generale delle truppe del sud Italia nel tentativo di contrastare il fenomeno del brigantaggio, carico che mantenne per tre anni.

Il suo ultimo importante incarico militare lo ottenne durante la Terza Guerra d’Indipendenza, diventando capo di stato maggiore dell’armata del Mincio.

Tuttavia il conflitto, scoppiato nel 1866 per strappare il Veneto all’Imperatore d’Austria, rivelò l’inadeguatezza dell’esercito italiano, sconfitto a Custoza e costretto ad attendere la vittoria dell’alleato prussiano per poter sperare di poter strappare territori al nemico.

L’infelice gestione delle operazioni militari indussero La Marmora alle dimissioni nel 1866 e a svolgere solamente un’altro incarico come luogotenente a Roma nel 1870-1871, prima del definitivo ritiro a vita privata e la morte, avvenuta nel 1874.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

L’INVASIONE ARABA DELL’IBERIA E LA FORMAZIONE DEL CALIFFATO DI CORDOVA (711-720)

Tempo di lettura: 3 minuti

PROTAGONISTI:

  • Regno visigoto: Roderico
  • Omayyaddi: Musa Ben Nusayr, Abd Al-Aziz, Tariq ben Ziyad

CONTESTO:

La rapida espansione araba che caratterizzò la prima metà del VII secolo si interruppe temporaneamente nel 654 a seguito di una serie di lunghe guerre civili, che, almeno inizialmente, contrapposero i sostenitori del nipote di Maometto, Alì, ed il governatore di Damasco, Mu’awya.

Con la vittoria di quest’ultimo l’espansione riprese sia in Asia che in Nordafrica, dove nel 697 avvenne la decisiva conquista dell’importante città di Cartagine, in precedenza luogo d’origine del celebre imperatore bizantino Eraclio I, e rinominata Kairouan.

Nel 702 le armate musulmane riuscirono a sottomettere e a inglobare la nativa popolazione seminomade dei Berberi, da secoli presenti lungo le coste algerine e marocchine.

Questo popolo tribale contribuirà enormemente all’invasione della Spagna, essendo i suoi membri reclutati in gran numero sia come mercenari che come unità ausiliarie dai comandanti arabi.

In assenza di ulteriori ostacoli l’avanzata proseguì spedita fino all’attuale golfo di Gibilterra, andando a minacciare da vicino il regno visigoto, padrone della penisola Iberica da circa due secoli e mezzo.

A quell’epoca i discendenti dei vincitori di Adrianopoli versavano in uno stato di profonda crisi, dovuta in particolare alle seguenti cause:

La prima era il graduale ma incontrollato indebolimento del potere centrale a vantaggio dell’aristocrazia locale e dell’episcopato cristiano, che provocava inoltre una grave destabilizzazione nell’organizzazione militare.

L’esercito infatti risultava molto frammentato, essendo costituito dalle sole truppe personali del Re e da una quantità indefinita di piccole milizie appartenenti ai notabilati locali, il cui contributo in caso di conflitto non era garantito.

Il secondo motivo è da ricercare nelle numerose carestie e pestilenze causate probabilmente dalle numerose guerre condotte dal sovrano Wamba verso la fine del VII secolo contro le popolazioni Basche e per sedare la ribellione dell’antica provincia romana della Narbonensis del Dux Paolo.

Nel 710, grazie ad un colpo di mano venne intronizzato Roderico, protagonista della primissima fase dell’invasione araba.

SVOLGIMENTO:

La salita al trono del Dux della Baetica fu la miccia che provocò una guerra civile tra Roderico ed i seguaci di Witiza, l’ennesima all’interno del mondo visigotico.

Questa volta però la situazione si aggravò molto rapidamente.

Secondo la Cronaca Mozaraba del 754 infatti, i sostenitori di Witiza chiesero l’intervento delle truppe arabo-berbere insediate a ridosso de sponda africana.

Inizialmente l’invasione venne condotta dalle truppe del genarale Tariq Ben Ziyad che, una volta sbarcato nella Spagna meridionale, sconfisse in maniera decisiva Roderico nella battaglia di Guadalete, nel 711.

Bastò questa battaglia affinché l’intero regno perdesse la sua già debole unità, ora in preda alle forze dissolutrici dell’aristocrazia locale.

L’occupazione territoriale procedette gradualmente, cercando di garantire tolleranza religiosa e autogoverno a tutte le forze nemiche che si fossero arrese agli invasori.

Tra questi ci fu Teodemiro, governatore della Murcia, che ottenne una larga autonomia in cambio del pagamento di un certo quantitativo tributario.

L’anno seguente giunsero 20.000 truppe di rinforzo dal governatore di Kairouan, Musa Ben Nusayr, che, una volta sbarcato a Cadice, riuscì senza troppe difficoltà a raggiungere il grande centro di Toledo, nell’entroterra iberico.

Il figlio di Musa, Abd al-Aziz, proseguì l’opera di conquista dei restanti territori visigoti, riuscendo in pochi anni ad arrivare fino in Provenza e a sconfiggere l’ultimo capo Goto, Ardo.

La lontananza dal potere centrale di Damasco e le lotte interne al mondo arabo che attanagliavano la dinastia Omayyade, fecero però crescere in Abd al-Aziz la volontà di rendere indipendenti i territori europei recentemente conquistati, essendo oltretutto separati geograficamente dai restanti domini musulmani.

Il suo assassinio nel 716 fece naufragare l’idea, e dovettero passare alcuni decenni prima che sentimenti del genere ritornassero a prender forma nelle menti dei successivi governatori.

Importante da ricordare, per il futuro destino della penisola, è la timida formazione del piccolo regno delle Asturie, venutosi a creare nel 718 lungo la costa atlantica della Spagna settentrionale e trasformato fin da subito nell’ultimo baluardo cristiano contro l’avanzata musulmana.

Protetto da alte e poco agibili montagne, questa piccola entità statale riuscirà a sopravvivere ai ripetuti assalti nemici e in seguito a creare la base l’offensiva dei potenti regni spagnoli bassomedievali, antenati degli attuali stati europei di Spagna e Portogallo.

CONCLUSIONE:

Nel 756 la dinastia Omayyade a Damasco venne detronizzata dalla potente famiglia Abbaside, la quale dominerà il mondo islamico per i seguenti secoli.

Questo risultò essere un forte impulso per la creazione di un regno arabo indipendente in Spagna, sotto la guida di un membro della dinastia appena sostituita: Yusuf Ibn Rahman.

Fu, però, nel 757 che, con il successore Abd Ar-Rahman, venne ufficialmente creato l’Emirato di Cordova, a guida Omayyade, mutato in Califfato nel 929.

FONTI:

LA GUERRA FRANCO-VISIGOTICA (507-508)

PROTAGONISTI:

  • Regno Franco: Clodoveo
  • regno Visigoto: Alarico II

CONTESTO:

Nella seconda metà del V secolo d.C. l’Europa occidentale vide l’instaurarsi del dominio germanico con i cosiddetti regni Romano-Barbarici.

Tra di essi ricordiamo i Visigoti, chiamati anche Goti Tervingi, e i Franchi, divisi in Franchi Salii e Franchi Ripuari.

I Visigoti, dopo il sacco di Roma nel 410, in origine si stanziarono lungo la costa atlantica francese, per poi espandersi e creare un vasto regno che, all’alba del VI secolo, comprendeva buona parte della penisola iberica e le regioni della Gallia meridionale.

Queste ultime rappresentavano il cuore del regno, ospitando infatti la stessa capitale, Tolosa.

I Franchi invece nacquero come confederazione di popoli che, dopo il dissolvimento dell’Impero Romano d’Occidente nel 476, trovarono terre da occupare nella provincia romana della Gallia Belgica Secunda, insediandosi all’incirca tra il 480 ed il 485 d.C.

Nel 481 d.C. si impose come sovrano di quest’insieme di popoli un certo Clodoveo, membro della tribù dei Franchi Salii, cioè dei Franchi che abitavano sulla riva sinistra del fiume Reno.

Clodoveo regnò fino al 511, combattendo e ampliando i domini dello stato e consolidando il potere della sua dinastia, i Merovingi, per i successivi due secoli.

I primi obbiettivi della sua politica d’espansione furono i territori sotto il controllo di Siagrio, generale romano che aveva creato uno stato personale lungo il bacino della Loira, con il nome di Regno di Soissons.

Nel 486 Siagrio venne sconfitto e i suoi domini vennero inglobati nel regno merovingio, che si ritrovò ad avere come vicino il potente regno Visigoto, governato da Alarico II.

Tra i due sovrani sorsero ben presto notevoli tensioni, provocate anche da motivi religiosi.

Clodoveo infatti, una volta sconfitti gli Alamanni, si convertì al cattolicesimo nel 496, evitando di abbracciare come gli altri popoli germanici l’eresia Ariana, condannata nel 325 d.C. al Concilio di Nicea.

La conversione si estese automaticamente a tutto il popolo, consentendo di instaurare un rapporto più amichevole tra dominatori e dominati e tra potere centrale e potere ecclesiastico.

Essere cattolico aveva anche un comodo valore politico, potendo usufruire della fede nell’unica e autentica forma cristiana per attaccare ed opporsi agli altri regni, di fatto eretici.

Tra questi vi era il regno Visigoto, la cui popolazione cattolica di Provenza mal sopportava la dominazione ariana, venendo così a invocare l’aiuto del sovrano merovingio.

Il re d’Italia, il goto Teodorico, cercò in tutti i modi di evitare lo scontro tra i due regni, sostenendo in ogni caso il fronte ariano-visigoto.

SVOLGIMENTO:

Le ostilità tuttavia scoppiarono nel 507 d.C. e videro una rapida avanzata delle armate franche, supportate dalle truppe del regno Burgundo, situato al confine tra Italia e Gallia.

All’esercito di Clodoveo si aggiunsero anche i reparti comandati di Cloderico, figlio di Sigiberto, capo dei Franchi Ripuari.

La battaglia decisiva avvenne in quello stesso anno nei pressi di Vouillè, nell’odierno Poitou, e vide la totale disfatta dell’esercito visigoto e il decesso dello stesso Alarico II, che fece piombare il suo regno in una guerra civile tra i due suoi figli: Gesalico e Amalarico.

Amalarico, grazie all’aiuto di Teodorico, riuscì a prevalere sul fratello e a costringerlo all’esilio, ma dovette riconoscere la perdita di tutti i territori a nord dei Pirenei, che vennero accorpati ai domini di Clodoveo.

Il sovrano Franco, dopo la vittoria, ricevette i codicilli del consolato dall’imperatore Anastasio e decise di porre la capitale del regno a Parigi,  morendo pochi anni più tardi nel 511.

CONCLUSIONE:

La breve guerra cristallizzò per molto tempo i confini di varie entità statali nei Pirenei, consacrando il regno Franco a principale potenza dell’Europa Occidentale per i successivi secoli.

Il regno Visigoto invece spostò il suo fulcro territoriale nella regione iberica, scendendo numerose volte in guerra contro i Suebi e contro i Bizantini, che verso la metà del VI secolo riuscirono a conquistare temporaneamente alcune roccaforti gote nel Meridione della Spagna, tenendole per circa una ventina d’anni.

Le vicende del regno si conclusero tuttavia improvvisamente tra il 711 ed il 720, in concomitanza dell’invasione Araba.

Il regno Franco alla morte di Clodoveo vide la sua frammentazione in tre regni autonomi, suddivisi tra i vari eredi della stirpe Merovingia, per poi trovare una nuova coesione sotto i Pipinidi, durante l’VIII e IX secolo.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

LO SCONTRO TRA OTTONE I E BERENGARIO II (951-963)

Tempo di lettura: 3 minuti

PROTAGONISTI:

  • Regno d’Italia: Berengario II
  • Regno di Germania: Ottone
  • Domini Pontifici: Giovanni XII

CONTESTO:

Nel 774 d.C. l’intervento del sovrano franco Carlo Magno contro il re longobardo Desiderio decretò l’ingresso dell’Italia centrosettentrionale nell’orbita carolingia, facendone uno dei territori più prestigiosi e appetibili del neonato Impero.

Le complicazioni iniziarono alla fine del IX secolo, quando i Franchi piombarono in una forte crisi interna ed esterna, innescata soprattutto dalle numerose incursioni vichinghe, saracene e ungare.

Queste diedero vita alla formazione di una miriade di piccole entità statali, diffuse in tutta Europa, che garantirono una difesa efficace ai loro attacchi. La mancanza di un forte potere centrale rese pienamente indipendenti queste realtà, originando un infinito vortice di piccoli conflitti regionali.

La parcellizzazione colpì anche la Penisola, nella quale il Papa cercò di ingraziarsi i notabilati italici concedendo loro la carica imperiale per un arco di tempo compreso tra l’891 ed il 924.

Nel periodo immediatamente successivo, la scena politica nella pianura Padana venne egemonizzata dalla figura di Ugo di Provenza, che riuscì a mantenere la carica di Re d’Italia dal 924 al 945.

Ciò nonostante il sovrano dovette confrontarsi con l’ostilità degli aristocratici locali, tra i quali spicca il Marchese d’Ivrea, Berengario. Una volta essersi rifugiato alla corte del sovrano germanico Ottone, Berengario coltivò fin da subito la volontà di ritornare nei suoi domini, per contrastare Ugo.

Con il sostegno del monarca tedesco, il Marchese partì con le sue truppe nel 945, ottenendo l’appoggio dei nobili veneti e costringendo l’avversario ad un precipitoso ritiro in Provenza.

SVOLGIMENTO:

Preso il potere nel Nord Italia, il Marchese si presentò a tutti gli effetti come un regnante, generando l’evidente opposizione di Ottone, che decise perciò di scendere nella penisola nel 951, riuscendo a portare dalla sua parte i signori della Marca Friulana.

Il tentativo di imporre un saldo dominio nell’Italia settentrionale, tuttavia, si rivelò fallimentare.

La situazione in quei territori manifestò infatti tutta la sua complessità e instabilità, soprattutto per il supporto molto labile del patriziato indigeno, messosi a disposizione dell’Imperatore unicamente per il suo consistente seguito di truppe, no di certo per una qualche forma di fedeltà nei suoi confronti.

Questo grado di opportunismo lo si può trovare anche nel cuore dei domini imperiali, in Germania, dove i signori feudali cercavano costantemente di rendersi più autonomi dal loro re.

Il potere di Ottone sarebbe perciò stato costantemente minacciato e messo in discussione da questi infiniti dissidi interni se non fosse accaduto un fatto che riuscì a modificare la situazione nel suo eterogeneo stato.

Da circa un secolo il popolo seminomade degli Ungari stava, difatti, mettendo a ferro e fuoco gli attuali territori dell’alta Austria e del Veneto, provocando il panico tra le popolazioni e i sudditi del Regno.

La decisiva risposta a queste devastazioni arrivò nel 955, quando l’esercito ottoniano sconfisse in maniera risolutiva le forze magiare nella piana di Lechfeld, sancendo la fine delle minacce nemiche.

La battaglia aumentò considerevolmente il prestigio e l’autorità di Ottone, riuscendo ad essere incoronato imperatore da Papa Giovanni XII nel 962.

La sua ferma volontà di riunire sotto un solo dominio l’Italia e la Germania, ponendosi ideologicamente in continuazione con l’Impero Carolingio e Romano, lo convinse a intraprendere una nuova spedizione contro Berengario II nel 962.

CONCLUSIONE:

Ben consapevole di non poter competere sul piano militare con l’avversario, il sovrano d’Italia si arroccò all’interno della fortezza di San Leo, nell’odierna Romagna, confidando in un repentino ritiro nemico a causa delle numerose difficoltà logistiche.

Il Papa, che fino ad allora vedeva in Ottone un valido protettore della Chiesa, decise di cospirare con Berengario quando si accorse che l’obbiettivo imperiale non era quello di difendere Roma, ma di piegare il Pontefice a mero esecutore della sua volontà.

Lo scontro contro Berengario in ogni caso si concluse con la sua resa e deportazione in Germania con la moglie Villa, mentre Giovanni XII venne deposto con il Sinodo di San Pietro e al soglio pontificio venne eletto Leone VIII nel 964.

L’aristocrazia romana, tuttavia, non accolse di buon grado la sua elezione e decise di ribellarsi all’autorità imperiale.

Questo fatto provocherà un turbinio di mosse e contromosse politiche che avranno ripercussioni in tutto il territorio italiano causando gravi problematiche strategiche all’esercito ottoniano, martoriato frequentemente da numerose epidemie di malaria.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

  • Peter H. Wilson, Il Sacro Romano Impero, Storia di un millennio europeo, Il Saggiatore, 2017.
  • Marco Scardigli, Le battaglie dei cavalieri, L’arte della guerra nell’Italia medievale, Mondadori, 2012.
  • Rodolfo il Glabro, Storie.

ALBOINO E LA DISCESA DEI LONGOBARDI IN ITALIA (568-573)

Tempo di lettura: 2,5 minuti

PROTAGONISTI:

  • Longobardi, guidati da Alboino
  • Bizantini, sotto la prefettura di Longino

CONTESTO:

Nel corso della sua lunga storia uno dei periodi più difficili e violenti che dovette affrontare la penisola italiana fu senza dubbio il VI secolo.

Il ventennale conflitto che vide impegnate le truppe bizantine contro i soldati del regno ostrogoto causò un repentino quanto preoccupante impoverimento dei suoi territori, principalmente dovuto ai numerosi saccheggi.

Non solo, la costante razzia attuata da entrambe le parti favorì l’insorgere e il dilagarsi di numerose crisi epidemiologiche, che falcidiarono la già esigua popolazione e contribuirono all’assottigliamento delle truppe di guarnigione di Bisanzio.

Nelle ultime fasi della guerra contro il sovrano ostrogoto Vitige, il generale romano Narsete si ritrovò più volte costretto a servirsi di truppe barbare mercenarie, tra cui Franchi e Longobardi.

Questi ultimi, all’epoca stanziati nell’antica provincia romana della Pannonia, compresero a che punto la penisola fosse devastata, restando in ogni modo sempre più appetibile rispetto alla loro lontana terra natìa, iniziando perciò a coltivare la volontà di ritornarci un giorno, per stabilirsi definitivamente.

Dopo la morte dell’Imperatore Giustiniano nel 565, Narsete venne sostituito al comando dell’Italia dal Prefetto Longino, provocando un profondo risentimento nell’ormai anziano generale.

Secondo Paolo Diacono a questo punto, mosso dall’ira, Narsete si rivolse al capo dei Longobardi, Alboino, affinché intervenisse nella penisola.

Le autorità bizantine decisero di indirizzare i Longobardi verso i territori occupati dai Franchi, per generare tensione e scontri tra i due popoli. Strategia politica utilizzata molte volte dagli Imperatori durante la tarda antichità.

LA DISCESA:

Alboino perciò decise di scendere in Italia, marciando con il suo popolo e con un agglomerato di truppe sassoni, franche ed erule, per un totale di circa 20.000 uomini, compresi donne e bambini.

Cividale del Friuli fu la prima città a cadere, occupata nel 568 ed assegnata al figlio del sovrano, Gisulfo.

Procedendo senza un piano di conquista chiaro e definito, gli armati barbari dilagarono per tutta la pianura Padana, espugnando in breve tempo le principali città venete, tra cui Vicenza e Verona e penetrando l’anno seguente in Lombardia, all’epoca facente parte dell’estesa provincia della Liguria, comprendente l’attuale pianura Padana occidentale.

Milano, l’antica capitale dell’Impero romano, venne occupata il 3 settembre del 569, mentre la resistenza avversaria si concentrò a Pavia, che venne posta sotto assedio per tre lunghi anni.

La città lombarda si ritrovò ad essere la meglio difesa dagli eserciti imperiali anche se, alla fine, gli assedianti ebbero la meglio, entrando nel 572 da Porta S. Giovanni, risparmiando tuttavia la popolazione.

Come mai non ci furono reazioni immediate da parte delle armate romane è ancora oggetto di dibattito tra gli storici, in ragion del fatto che nella penisola vi erano abbastanza distaccamenti di truppe, di certo non molto numerose, ma sicuramente con un alto grado di esperienza e preparazione.

Di sicuro non giovò ai bizantini l’essere minacciati in quasi tutte le frontiere imperiali, che richiesero la maggior parte dei soldati, rendendo così meno saldo il controllo sulle dispendiose conquiste Giustinianee, comprese le province italiche.

CONCLUSIONE:

Nel 572 Alboino cadde vittima di una congiura ordita da sua moglie Rosmunda e dallo scudiero reale Elmichi, causando lo scoppio di una serie infinita di scontri tra i vari comandanti e signori della guerra locali, destinata a trascinarsi per una decina d’anni e a provocare molta sofferenza tra la popolazione indigena.

Il territorio italico rimase così diviso per alcuni secoli tra la presenza bizantina, ancorata saldamente lungo la costa, e la presenza longobarda, sviluppatasi invece nell’entroterra appenninico e padano.

Anche se molto lentamente, durante il VII e l’VIII secolo i romani d’oriente dovettero cedere sempre più terreno ai nuovi arrivati, conservando, verso il 900, solo circoscritti lembi di terra nel meridione, corrispondenti agli antichi territori magnogreci in Calabria, Sicilia e Puglia.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

  • Paolo DIACONO, Storia dei Longobardi
  • Marco SCARDIGLI, Le battaglie dei cavalieri: L’arte della guerra nell’Italia medievale, 2012.