I TOPONIMI DELLA NUOVA ROMA

Oggi sul Bosforo tracico e anatolico, fra il Mar Nero e il Mar di Marmara, troneggia Istanbul, o İstanbul alla turca, città transcontinentale e per secoli capitale di imperi i cui echi si odono ancora. Nonostante la nota diceria, Istanbul non è un nome di origini turca. Quindi, come si giunse a chiamare così la città che un tempo era conosciuta come la Nuova Roma?

La storia della Nuova Roma cominciò nel 686 a.C., quando i Megaresi fondarono la colonia (apoikìa) di Calcedonia sulle coste dell’Asia minore. La condizione sfavorevole del nuovo insediamento, dovuta alla mancanza di correnti, portò la madrepatria a organizzare una nuova spedizione, che nel 659 a.C. portò alla fondazione di Bisanzio. Erodoto riportò che il nome derivi dal fondatore greco Byzas. Tuttavia, altre fonti riportano che il leggendario Byzas fosse in realtà il sovrano trace di Lygos, insediamento precedente a Bisanzio. Altre colonie crebbero nello stretto, e la più importante fu Crisopoli.

Fu a Crisopoli che più quasi mille anni dopo, nel 324 a.C. si combatté la battaglia decisiva fra Costantino il Grande e Valerio Licinio, e che permise al primo di diventare a tutti gli effetti imperatore. La posizione strategica delle città sul Bosforo e la prosperità e sicurezza della zona orientale, convinsero Costantino a spostare la capitale da Roma a Bisanzio, presto rinominata Nuova Roma e, più tardi, Costantinopoli. Anche le città del Bosforo mutarono nel tempo: Crisopoli divenne Scutari, dal greco “Skuotarion” che indicava gli scudi in pelle, mentre a nord sorse Pera, che significa “oltre” in greco, più tardi chiamata anche Galata.

Quando gli Ottomani conquistarono la città nel 1453, ottomanizzarono la città chiamandola in Kostantīnīye, cercando di farsi portatori della continuità dell’Impero bizantino. Mentre i Greci rimasti in città continuarono a utilizzare i nomi precedenti, i nuovi abitanti di Kostantīnīye presero a chiamare Scutari “Üsküdar”, Calcedonia “Kadıköy” e Pera “Beyoğlu”, quest’ultimo forse in onore del figlio di un bailo veneziano. Nelle corrispondenze e cartoline occidentali, la città continuò a essere indicata come Costantinopoli.

Infine, nel 1923, quando, terminata l’occupazione dell’Intesa a seguito della Prima guerra mondiale, la Città perse il titolo di capitale nella nuova Turchia repubblicana, cedendolo ad Ankara, e l’antico nome: nel 1930 Costantinopoli fu rinominata Istanbul, da Stamboul il nome della città vecchia al di qua delle mura costantinee. Ma anche questo toponimo aveva un’origine greca: Istanbul o Stamboul, infatti, deriverebbe da un cambiamento linguistico degli arabi e degli ottomani, che per imitare il greco “èis ten Pòlin”, ovvero “in direzione della Città”, divenuto poi Stamboul e più tardi Istanbul.

BIBLIOGRAFIA:

  • CORSARO Mauro, GALLO Luigi, Storia greca, Le Monnier, Firenze, 2010
  • ERODOTO di Alicarnasso, TUCIDE di Atene, Storie – La Guerra del Peloponneso, Biblioteca Universale Rizzoli (BUR), Milano, 2008
  • MANTRAN Robert, Storia dell’Impero Ottomano, Argo, Lecce, 1999
  • OSTROGORSKY Georgij Aleksandrovič, Storia dell’Impero bizantino, Einaudi, Milano, 1968.

LA BATTAGLIA DI ALAMO (23 febbraio-6 marzo 1836)

La battaglia del forte di Alamo, ricordata nel tempo grazie a numerose produzioni bibliografiche e cinematografiche, rappresenta uno degli eventi cardine su cui si fonda l’identità Nazionale americana.

PROTAGONISTI:

  • Messico: numero sconosciuto di artiglieria. 6.500 soldati partiti per la spedizione, presero parte alla battaglia circa 1700 guidati dal presidente e generale Antonio Lopez de Santa Anna; Varie fonti discordanti ci offrono visioni differenti del numero dei  caduti, probabilmente furono circa 200 morti e 400 feriti.
  • Texas: 18 cannoni; 189 soldati, tra cui regolari e volontari texani e provenienti dalle altre colonie americane. Tutti i soldati persero la vita durante lo scontro. I civili, tra cui donne, bambini e schiavi, furono lasciati andare.

Nei primi decenni dell’800 il Texas, una regione dello Stato indipendente messicano, fu al centro di un processo di migrazione di migliaia di coloni americani, che si insediarono in tali territori favorendo, in maniera graduale, la nascita di una nuova identità culturale.

Questo portò all’indipendenza dal Messico e alla nascita della Repubblica del Texas, cacciando i presidi messicani dal territorio. Il Texas quindi divenne uno Stato indipendente dal governo messicano, creando un governo autoctono e delle forze militari locali. Nel 1836 il presidente e generale Santa Anna, a capo dello Stato messicano diede inizio a una spedizione militare alla quale parteciparono oltre 6500 unità con l’obiettivo di riconquistare il Texas.

Alamo, un tempo una missione di frati spagnoli, venne riconvertito in forte per via della sua posizione strategica nel territorio,e rafforzato grazie allo spostamento di un parco d’artiglieria che rendeva la missione il forte più armato dell’intero territorio. Le unità a difesa del forte erano poco meno di un centinaio e  raggiunsero il numero di 189, poco prima dell’inizio della battaglia, grazie all’arrivo di ulteriori rinforzi volontari nel tentativo di fermare l’avanzata messicana.

Le truppe messicane potevano contare sulla superiorità numerica e armamentaria. Oltre a essere equipaggiate con armi tecnologicamente superiori, potevano inoltre vantare di una soverchiante superiorità numerica e vantavano della guida di numerosi ufficiali veterani che avevano già partecipato a numerosi conflitti sia in Europa che in America Latina.
Nonostante le ricostruzioni fatte dal cinema e dalla propaganda, l’assedio fu condotto in maniera professionale e scientifica da parte delle truppe messicane, rendendo superfluo qualsiasi tentativo di difesa da parte dei texani.

Dopo tredici giorni di isolamento e di bombardamento, le truppe messicane si organizzarono per l’assalto: dopo due tentativi falliti, alle 5 della mattina del 6 marzo 1836 le forze d’assalto, prendendo di sorpresa i difensori, riuscirono, dopo aspri scontri, ad avere la meglio e a conquistare le mura. Lo scontro si spostò all’interno degli edifici della missione, ma la soverchiante superiorità messicana diede poche possibilità ai difensori. Alle 6:30 della mattina la battaglia era terminata. I soldati arresisi furono giustiziati mentre una dozzina tra donne, bambini e schiavi furono lasciati andare.

Di fronte alla violenza dell’esercito messicano, molti volontari, non solo texani ma provenienti da altri stati americani, si unirono al conflitto a fianco dell’esercito regolare texano che di lì a poco, nella battaglia di San Jacinto, pose fine all’ avanzata messicana e sancì la nascita dello stato Texano.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E FILMOGRAFIA:

  • Alamo-gli ultimi eroi, 2004, Regia di John Lee Hancock;
  • La battaglia di Alamo, 1960, regia di John Wayne;
  • P. Ignacio Taibo, Alamo, 2012, Tropea Editore

L’ALLUCUZIONE PAPALE E LA BATTAGLIA DI CORNUDA (1848)

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“[…] Ma siccome ora alcuni desidererebbero che Noi unitamente agli altri Popoli e Principi d’Italia entrassimo in guerra contro i Germanici, abbiamo ritenuto Nostro dovere dichiarare chiaramente e palesemente in questo solenne Nostro Convegno che ciò è del tutto contrario alle Nostre intenzioni, in quanto Noi, benché indegni, facciamo in terra le veci di Colui che è Autore della pace e amatore della carità, e per dovere del Nostro Supremo Apostolato Noi con eguale paterno affetto amiamo ed abbracciamo tutti i popoli e tutte le nazioni. Ché, se nonostante ciò non mancassero fra i Nostri sudditi coloro che sono trasportati dall’esempio degli altri Italiani, in qual modo potremmo Noi frenare il loro ardore? […]”

Così papa Pio IX interviene pubblicamente il 29 aprile 1848. Un discorso che non lascia margini d’interpretazione, nessun dubbio – ora – sulla posizione della Chiesa in merito a quella che oggi viene ricordata come prima guerra d’indipendenza dall’Impero austriaco. Tuttavia, diverse ambiguità c’erano state eccome nei primi due anni del suo pontificato. Alcune iniziative riformatrici dello Stato pontificio come l’amnistia ai condannati politici e la legge sulla stampa avevano acceso gli animi dei contemporanei individuando nel nuovo pontefice il “papa liberale” idealizzato dal Gioberti nel suo Primato, opera in cui si teorizza la visione neoguelfa di unità nazionale, un’unità basata su una federazione di stati guidata dal papa stesso. Tale prospettiva si rivelò però infondata, una mera illusione di una delle diverse correnti interne al risorgimento italiano. Pio IX, temendo un possibile scisma con i cattolici austro-tedeschi, abbandona la causa italiana scindendo il binomio Fede-Patria che aveva mosso le prime fasi dell’insurrezione. Crolla così definitivamente il progetto neoguelfo e il mito della guerra santa contro l’nvasore ma le truppe pontificie avevano ormai raggiunto il nord per supportare il Lombardo-Veneto. Dopo la sconfitta di Montebello e Sorio – ad ovest di Vicenza – e la caduta di Udine, diveniva fondamentale impedire l’avanzata delle truppe austriache guidate dal generale Nugent che cercavano di raggiungere il comandante Radetsky e il resto dell’esercito rifugiatisi a Verona dopo le cinque giornate di Milano. Giovanni Durando, ex ufficiale piemontese e monarchico, e il repubblicano Andrea Ferrari guidano la difesa della regione di fronte all’avanzata austriaca. I due dibattono sul dove organizzare maggiormente la difesa: credendo che Nugent volesse raggiungere Verona passando per Treviso e Vicenza, la gran parte dell’esercito viene posta a presidiare Bassano e Trento sotto la guida di Durando. I piani del generale austriaco però erano diversi. Il suo intento era quello di passare per Cornuda, area presidiata da Ferrari e circa quattro mila uomini tra volontari e soldati pontifici rimasti. Lo scontro avvenne tra l’8 e il 9 maggio e si concluse con la ritirata delle truppe italiane a Treviso mentre gli austriaci occupavano Cornuda. Vani risultarono gli appelli di soccorso di Ferrari alle truppe di Durando che non arrivarono in tempo.

Si tratta di un momento rilevantissimo per l’intera guerra: l’esercito austriaco può, con questa vittoria, proseguire la propria avanzata verso Treviso e Vicenza mentre il resto delle province venete non riconquistate decidono di affidare la propria sorte al Regno di Sardegna di Carlo Alberto; ciò che deciderà di fare – con grandi tensioni interne – anche Venezia, poco prima di un altro punto di svolta dello scontro, quello della battaglia di Custoza del 23 luglio. Sta terminando la prima fase della guerra e l’Italia, parafrasando ciò che Massimo d’Azeglio affermerà all’indomani dell’unità, è ancora molto lontana dall’essere fatta.

FONTI:

  • Bruno BERTOLI, Le origini del movimento cattolico a Venezia, Brescia, Morcelliana, 1965.
  • Gabriele DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari, Laterza, 1974.
  • Paul GINSBORG, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49, Torino, Einaudi, 2007. Pietro SCOPPOLA, Dal neoguelfismo alla Democrazia cristiana, Roma, Edizioni Studium, 1979.

IL DISPACCIO DI EMS E LE SUE CONSEGUENZE

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Sua Maestà mi scrive: Il conte Benedetti mi ha sorpreso insidiosamente alla passeggiata, chiedendo in modo molto insistente l’autorizzazione a telegrafare subito che per l’avvenire non avrei più dato il mio consenso, qualora gli Hohenzollern fossero ritornati alla loro candidatura. Ho finito col congedarlo un po’ severamente poiché non si devono ne si possono prendere tali impegni à tout jamais. Gli ho detto naturalmente che non avevo ancora ricevuto nulla e che egli, avendo prima di me l ‘informazioni da Parigi e da Madrid, vedeva bene che il mio governo era di nuovo fuori di questione. Di poi sua Maestà ha ricevuto una lettera del principe Carlo Antonio . Siccome sua Maestà aveva detto al conte Benedetti che aspettava notizie del Principe, così tenuto conto della pretesa di lui, la stessa Maestà, per consiglio mio e del conte Eulenburg, ha deciso di non più ricevere il conte Benedetti, ma di fargli dire da un aiutante, avere ricevuto ora dal Principe la conferma della notizia che Benedetti già aveva avuto da Parigi (e cioè che il Principe aveva ritirato la sua candidatura) e non avere più nulla da dire all’ambasciatore. Sua Maestà lascia all’arbitro dell’Eccellenza Vostra, se non si debba comunicare subito, sia ai nostri ambasciatori, sia alla stampa, la nuova pretesa di Benedetti e il rifiuto ad essa opposto“.

Così il cancelliere Otto von Bismarck ricorda il telegramma inviatogli da Ems, località termale sulle sponde del Reno e all’epoca appartenente alla provincia prussiana dell’Assia-Nassau, dal re di Prussia Guglielmo I nel luglio del 1870. Partendo da queste parole, il Primo ministro manipolò il dispaccio facendolo pubblicare dalla stampa prussiana con lo scopo di far credere all’opinione pubblica mondiale che l’anziano sovrano si fosse rifiutato di ricevere il conte Benedetti, delegato dell’imperatore dei Francesi Napoleone III, chiamato a mediare le accese relazioni franco-tedesche, inasprite dalla confusa situazione politica spagnola, in cui Leopoldo di Hohenzollern, lontano parente del sovrano prussiano ma, a differenza di Guglielmo, cattolico, sembrava destinato a divenire Re di Spagna. Oggi un episodio simile si annoterebbe nei fondi pagina dei giornali, ma se inserito nella diplomazia dell’epoca, basata su una cultura dell’onore e una rigorosa formalità almeno nei modi e nelle apparenze, e in quell’estate del 1870, il dispaccio suscitò scandalo.

Con la Guerra dell’Holstein e del 1866 contro l’Austria, il Regno di Prussia si era notevolmente ampliato, grazie a una politica estera pragmatica, arrivando a ottenere parte dell’attuale Danimarca e allontanando l’influenza asburgica dagli Stati dell’ormai disciolta  Confederazione tedesca. L’espansione prussiana mise in allarme la Francia, e la questione del conte Benedetti infiammò entrambe le nazioni. Manifestazioni inneggianti alla guerra, sia prussiane, sia francesi portarono un titubante Napoleone III, non del tutto convinto, a dichiarare guerra.

Bismarck non attendeva altro: era certo di contare su un esercito ben equipaggiato e addestrato. Disponeva, perfino, di un casus belli: rispetto e autorappresentazione, temi sempre validi per aprire conflitti. L’esercito prussiano risalì il territorio francese a pochi chilometri dal confine belga, circondando il nemico e riportando la decisiva vittoria a Sedan il 2 settembre 1870. Tre giorni dopo Napoleone III, imprigionato dai Prussiani assieme a 104.000 soldati francesi, fu dichiarato decaduto, e a Parigi si proclamò la Terza repubblica francese che si aprirà con l’esperienza della Comune parigina.

Il 18 gennaio 1871, mentre Parigi si trovava sotto assedio, nella Galleria degli Specchi del Palazzo di Versailles, Guglielmo I fu proclamato Imperatore dell’Impero tedesco. Il Trattato di pace firmato a Francoforte consegnò all’Impero l’Alsazia-Lorena, decisione osteggiata dallo stesso Bismarck, motivo di ostilità delle relazioni franco-tedesche fino al 1945.

BIBLIOGRAFIA:

  • BANTI Alberto Mario, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Laterza, Bari, 2009;
  • CLARK Christopher, The Iron Kingdom: The Rise and Downfall of Prussia 1600-1947, Penguin, Londra, 2007.

GLI INNI D’ITALIA

Quando si fa riferimento all’inno nazionale italiano spesso l’immaginario collettivo collega subito questo canto alla produzione risorgimentale scritta da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro nel 1847. L’inno di Mameli, composto da 6 strofe e un ritornello, fu effettivamente uno dei canti più popolari  utilizzati nel corso del periodo risorgimentale e nei decenni successivi, ma nonostante la sua popolarità e il suo ruolo nel corso del conflitto, nel periodo post unitario si scelse come inno ufficiale del Regno d’Italia la marcia reale ovvero il brano ufficiale di casa Savoia. Il canto degli italiani, altro nome dell’inno di Mameli, era infatti considerato troppo poco conservatore rispetto alla situazione politica dell’epoca: Fratelli d’Italia dichiarava connotazioni repubblicane e Giacobine e quindi si conciliava male con l’esito risorgimentale che fu di stampo monarchico. Il ruolo che invece ricopre tutt’ora questo canto mutò all’indomani della seconda guerra mondiale quando lo Stato Italiano diventò una repubblica e l’inno di Mameli fu scelto inizialmente come inno provvisorio il 12 ottobre del 1946 e, conservando questo primato, divenne inno nazionale ufficiale nel dicembre del 2017.

Tuttavia però è importante sottolineare come furono innumerevoli gli inni che caratterizzavano la società italiana degli stati preunitari del 1861 e che scomparvero a seguito dell’unificazione non solo territoriale ma anche culturale della penisola.

Nel regno Lombardo Veneto e nel Tirolo di lingua italiana fu adottato il Kaiserhymne, la composizione musicale nata nel 1797 per volere dell’imperatore del Sacro Romano Impero Francesco II, che divenne inno nazionale dei territori austriaci in Italia.

Nel Ducato di Lucca l’inno ufficiale era quello spagnolo, la Marcha Real, in quanto i Duchi regnanti erano originari della penisola iberica.

Nel Granducato di Toscana divenne invece canto nazionale la Leopolda ovvero una marcia d’ordinanza delle guardie civiche il cui titolo richiamava alla dinastia regnante in Toscana.

Nello Stato Pontificio per numerosi secoli la canzone religiosa anonima Noi vogliam Dio venne riconosciuta come inno nazionale per poi essere sostituita nel 1857 dalla Gran marcia trionfale, un brano allegro e saltellante divenuto successivamente l’inno ufficiale a seguito dell’ingresso trionfale delle truppe pontificie a Bologna. Nel 1929 rinacque lo Stato della Chiesa, dopo anni di annessione al Regno d’Italia, come Città del Vaticano. In seguito ai Patti Lateranensi , il nuovo stato adotta la bandiera e l’inno del 1857 ora rinominato inno e Marcia pontificale.

Nel Regno delle Due Sicilie il canto ufficiale era solitamente associato all’inno del re, una partitura scritta tra il 1835 e il 1840 in onore alla principessa Eleonora Galletti.

Nel Regno di Sardegna invece era presente parallelamente alla Marcia reale, brano ufficiale della casata sabauda, un inno sardo scritto è composto da un abate nel 1842 che godeva di numerosa popolarità nei territori sardi preunitari che viene riconosciuto da molti come inno ufficiale del Regno di Sardegna. A seguito del processo di unificazione territoriale italiano, anche i vari inni appartenenti ai singoli stati preunitari furono abbandonati per favorire un’unificazione culturale.

UNITALIA (1861-2021)

FRANCESCO LANDI. Il Brigadier Generale di Calatafimi (1793-1861)

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PRIMI ANNI E FORMAZIONE

Figlio di un militare in congedo, Francesco Landi nacque a Napoli nel 1793. Quasi quattordicenne, entrò nella Reale Accademia militare del Regno di Napoli del nuovo insediato re Gioacchino Murat. Landi prese le parti di Murat anche nella guerra contro l’Austria del 1814-15, che portò alla deposizione dell’ex generale napoleonico. In questa occasione fu promosso capitano e fu insignito l’Ordine Reale delle Due Sicilie. Congedato alla fine della guerra, fu richiamato alle armi assieme ad altri generali napoleonici nel 1830. Sposatosi, ebbe cinque figli di cui due ammessi nella Guardia reale del corpo a cavallo. Anche gli altri tre, fra i quali Michele, seguirono la carriera militare.

Il 19 aprile 1860, nel quadro del rinnovamento dell’esercito borbonico di cui il re Francesco II si era reso promotore, Landi ottenne il grado di Brigadier generale, con l’ordine di soffocare i primi moti in Sicilia. Il 6 maggio, il giorno dopo la partenza dei Mille, partì da Palermo al comando di quattro compagnie di fanteria, uno squadrone di cacciatori a cavallo e quattro pezzi d’artiglieria, per un totale di circa tremila uomini. Tra i soldati c’era anche il figlio Michele. Il 12 maggio ricevette la notizia dello sbarco a Marsala. Il giorno dopo, il Brigadier generale giunse a Catalafimi.     

CATALAFIMI: BATTAGLIA, ESITI, MORTE

Il 15 maggio Landi mandò in esplorazione tre colonne, rimanendo in paese con le restanti truppe. Una delle colonne avvistò il nemico dal colle dove oggi sorge l’Ossario di Pianto del Romano, e attaccò. Lo scontro, conclusosi nel pomeriggio, consegnò la vittoria ai garibaldini. Landi evitò di mandare rinforzi poiché, come scrisse nella richiesta di soccorso inviata a Palermo, «le masse di Siciliani uniti alla truppa italiana sono di immenso numero». Con le truppe rimastegli,  il Brigadier generale ritornò a Palermo, evitando le resistenze degli insorti, con accaniti scontri. Nessun maggiore criticò la condotta di Landi, che rimase a Palermo partecipando alla sua difesa. Fu soltanto dopo la conquista garibaldina della città, fu sottoposto a giudizio. Durante il processo, ricevette la notizia della morte del figlio Francesco Saverio, membro della Guardia reale a cavallo, caduto nella Battaglia del Volturno.

Alla fine la commissione di inchiesta assolse tutti gli imputati, e Landi chiese il ritiro. Fu testimone dell’entrata di Garibaldi a Napoli, dove morì il 2 febbraio 1861 di pleurite. Subito dopo la sua morte, negli ambienti filoborbonici si vociferò del tradimento del Brigadier generale, che si sarebbe lasciato corrompere da Garibaldi col versamento di una polizza di credito di quattordicimila ducati, a suo nome, alla Banca di Napoli quale ricompensa. A questo si aggiungerebbe la morte di crepacuore, all’aver scoperto che i ducati versati fossero in realtà solo quattordici.

LA LETTERA DI GARIBALDI A MICHELE LANDI

Michele Landi, tra i più giovani dei figli di Francesco, si unì al 9° reggimento di cavalleria dell’esercito sardo dopo aver combattuto contro i garibaldini in Sicilia. Il 1° ottobre 1861 spedì da Bologna una lettera a Garibaldi, pregandolo di smentire le voci sul conto del padre. La risposta del Generale arrivò il mese dopo da Caprera:

«Mio caro Landi,  ricordo di aver detto nel mio ordine del giorno di Calatafimi che  non avevo veduto ancora soldati  contrari combattere con più valore; e le perdite da noi sostenute in quel  combattimento lo provavano bene. Circa i quattordici mila [sic] ducati  ricevuti dal vostro bravo Genitore in  quella circostanza – potete assicurare gl’impudenti giornalisti che ne insultano la memoria, – che 50 mila [sic] lire era  il capitale che corredava la prima  spedizione in Sicilia, e che servirono ai bisogni di quella, non a comperar  Generali. Sorte dei Tiranni! Il Re di Napoli doveva soccombere! Ecco il  motivo della dissoluzione del suo esercito. Ma vostro padre a Calatafimi e nella sua ritirata su Palermo, fece il  suo dovere da soldato! Dolente in quanto avete perduto, vogliate presentarmi alla vostra famiglia come un amico e credermi con  affetto. V.ro  G. Garibaldi».

BIBLIOGRAFIA:

UNITALIA (1861-2021)

CARLO CATTANEO (1801-1869)

Carlo Cattaneo nacque a Milano il 15 giugno 1801 da una famiglia milanese di piccola borghesia. Fin da giovane si dimostrò interessato allo studio dei classici, nel 1824 conseguì la laurea in diritto all’Università di Pavia e si diede alla pubblicistica. I suoi interessi erano molteplici: storia, filosofia, diritto, geografia, economia, in cui si distinse per la sua visione liberale e progressista, attenta alle tematiche sociali e racchiusa in un ottica federalista. Riteneva che lo sviluppo tecnologico dovesse andare di pari passo con quello sociale, ma non per forza in modo repentino e/o immediato, bensì in modo graduale. Fu uno dei primi studiosi a dedicarsi ai nessi tra linguistica e antropologia. Fondò la rivista il Politecnico, definito come repertorio mensile di studî applicati alla cultura e prosperità sociale.

Inizialmente favorevole a un accordo su una maggiore autonomia al Lombardo-Veneto, Cattaneo divenne, alle porte della Prima Guerra d’Indipendenza (1848-49) ostile sia all’allora dominante Impero Austriaco, sia al vicino Regno di Sardegna, quest’ultimo ritenuto non abbastanza democratico e oltremodo centralista. Si definì sembra repubblicano: come Mazzini, desiderava un’unità d’Italia di stampo repubblicano e federale e, quindi, che a ogni territorio spettasse una certa autonomia, dovuta alle differenti realtà storiche dei secoli precedenti. In seguito, ottenuta l’unificazione dell’Italia, il passo successivo nei piani sarebbe stato quello dell’unione federale degli Stati europei (nel settembre del 1848 parlò apertamente di Stati Uniti d’Europa). Un elemento di scontro con Mazzini era il metodo, infatti Cattaneo era sotto questo aspetto moderato: riteneva sbagliati gli attentati terroristici e le congiure del leader repubblicano.

Tuttavia, quando nel 1848 a Milano scoppiò l’insurrezione armata contro il dominio austriaco, vedendo che il popolo era disposto alla violenza, non si tirò indietro e fu messo a capo del Consiglio di guerra durante le Cinque giornate di Milano. In seguito si rifugiò con la moglie a Castagnola, in Svizzera. Tornò per un breve periodo in Italia nel 1860 per incontrare Garibaldi a Napoli e propugnare il suo ideale di stato federale per il nascente Regno d’Italia, senza successo. Fu eletto due volte al parlamento italiano, ma di fatto non svolse mai la sua funzione di deputato poiché si rifiutò di giurare fedeltà al Re. Morì il 6 febbraio 1869 a Lugano.

Cattaneo può, quindi, essere ritenuto un intellettuale di grande spessore, patriota attivo e politico del Risorgimento italiano, ritenuto il fondatore del pensiero federalista repubblicano laico di orientamento radicale-anticlericale.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

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Josef Radetzky

Radetzky nacque il 2 novembre 1766 da genitori cechi della Boemia meridionale. Rimasto orfano di madre, che morì mettendolo al mondo, e di padre, dal 1776 venne affidato al nonno, conte boemo.

Uno zio dilapidò gran parte della fortuna di famiglia e con quel che ne restava venne inviato a studiare a Vienna, nell’accademia per giovani Nobili instaurata dall’imperatrice Maria Teresa, dal 1781 sino al 1784. A 18 anni fu ammesso come cadetto nel Reggimento di Corazzieri partecipando così nel 1787 alla guerra austro-turca dove venne impiegato come ufficiale.

Ritratto di Josef Radetzky

A partire dal 1793 partecipò alle guerre napoleoniche combattendo prima sul Reno e poi in Italia, dove le sue gesta gli valsero la promozione a Maggiore. Partecipò Inoltre alle battaglie della seconda e terza coalizione nelle guerre antinapoleoniche che lo portarono a ricoprire il rango di maggior generale e l’assegnazione di un comando in Italia sotto l’arciduca Carlo. Nel corso dell’intermezzo pacifico fra la terza e la quarta coalizione, Radetzky si dedicò allo studio e all’insegnamento di materie belliche senza prendere congedo dall’esercito, favorendo una serie di riforme per l’esercito austriaco.

Dal 1809 riprese il conflitto contro Napoleone. Nonostante la sconfitta di Wagram nel luglio dello stesso anno, il lustro presso la corte imperiale rimase immutato,  venne infatti  promosso  a Capo di Stato Maggiore generale impegnandosi quindi nella riorganizzazione e nella modernizzazione dell’esercito e dei sistemi tattici, favorendo una serie di riforme per quanto riguarda l’addestramento e l’utilizzo di nuove tattiche militari di discutibile efficacia portando alla formazione di una sua opposizione politica nel governo austriaco. Nel 1812 si dimise dal suo incarico, tornando a comandare un corpo armato. Nel corso della sesta e settima coalizione prestò servizio in Germania e in Russia dove creerà una serie di legami con personaggi di spicco della sua epoca, tra cui lo stesso Alessandro I di Russia.

Per via dei suoi legami personali Radetzky servì come intermediario all’interno del Congresso di Vienna.

Organizzazione politica del Regno Lombardo-Veneto

Nel 1831 intervenne nell’Italia centro-settentrionale a seguito dello scoppio dei moti rivoluzionari.

Rimase quindi in Italia e nel 1834 succedette al comandante dell’esercito austriaco, dove, due anni più tardi venne promosso feldmaresciallo. Dal 1834 al 1848 limitò il proprio ruolo formale a questioni strettamente militari, in quel tempo era ancora presente una separata amministrazione civile sotto l’autorità nominale del Vicerè Arciduca Ranieri.

Durante le crisi del 47-48 Radetzky darà vita a una serie di repressioni locali che portarono alla proclamazione dello Stato d’assedio e la legge statuaria nel regno Lombardo-Veneto. Il 18 marzo 1848 Milano insorse dando vita alle ‘Cinque giornate di Milano’ che portarono alla dichiarazione di indipendenza della città. Inutilmente l’austriaco cercò di riportare l’ordine. Sarà costretto ad abbandonare parte dei centri urbani Lombardi e veneti che si ribellarono al potere austriaco; ma in alcuni casi si assisterà invece al contrario, ovvero dove l’autorità austriaca riuscì tramite supporto popolare a mantenere il controllo della situazione.

A  82 anni e Radetzky fu costretto ad abbandonare la capitale Lombarda e a prendere la strada del quadrilatero, le fortezze situate a cavallo tra i territori lombardi e veneti. La situazione cambierò ulteriormente quando il Regno di Sardegna entrò in guerra contro l’Austria varcando i confini occidentali. Inizialmente l’avanzata piemontese, sostenuta dalle forze italiane di Toscana, Regno di Napoli e Stato Pontificio e supportate dal sostegno Popolare portarono un’ iniziale vittoria ma, favorito da un intervento di rinforzi austriaci, Radetzky riuscì a far indietreggiare l’Armata nemica sconfiggendola quindi nelle battaglie di Curtatone e di Custoza e costringendo l’esercito piemontese all’ armistizio di Salasco, obbligando quindi  i nemici ad evacuare la Lombardia e la città di Milano, liberata il 6 agosto del 48.

Prima guerra di indipendenza italiana o guerra italo-austriaca in Rosso la spedizione austriaca, in blu quella piemontese e in verde le truppe degli alleati piemontesi

Ripresa la guerra nel marzo del ’49, Radetzky varcò il fiume Ticino e sconfisse le truppe piemontesi a Mortara e poi a Novara obbligando quindi alla resa l’esercito nemico e all’abdicazione di Carlo Alberto.

L’austriaco si impegnerà così a reprimere le ultime bolle rivoluzionarie italiane presenti nel regno Lombardo-Veneto. Ricoprì inoltre dal 1848 al 1857 il ruolo di governatore militare e civile delle province, occupandosi quindi sia degli aspetti militari che quelli civili, che lo porteranno a dure repressioni di alcuni tentativi insurrezionali nei territori italiani. Queste sue azioni portarono ad un generale aumento dell’impopolarità del governatore austriaco agli occhi del governo austriaco e alla nascita di una serie di dissapori con l’imperatore. Sarà proprio quest’ultimo a favorire il suo ritiro a vita privata, ormai novant’enne. Nel 1856 Radetzky si ritirò alla Villa Reale di Milano, dove continuerà a sfilare e a prendere parte alle manifestazioni militari austriache. Morì a Milano nel 1858.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E ICONOGRAFICHE:

  • A. COSTANTINI, Soldati dell’Imperatore. I lombardo-veneti dell’Esercito Austriaco (1814-1866), Collegno, Chiaramonte, 2004.
  • I.MONTANELLI, L’Italia del Risorgimento (1831-1861), Corriere della sera, Quotidiano s.p.a., Milano, 2018.
  • https://it.wikipedia.org/wiki/Josef_Radetzky

UNITALIA (1861-2021)

ALFONSO LA MARMORA (1804-1878)

Nato a Torino dall’illustre famiglia dei Marchesi di La Marmora, il piccolo Alfonso venne fin da piccolo spedito all’accademia militare di Torino, dove rimase dal 1816 al 1822, andando poi ad approfondire gli studi sull’organizzazione dell’artiglieria in Prussia.

Nel 1848 prese parte alla prima guerra d’indipendenza, dichiarata il 23 marzo dal re di Sardegna Carlo Alberto contro l’Austria.

Tra i motivi dell’attacco si possono annoverare:

il desiderio di estendere i domini piemontesi alla ricca regione lombardo-padana; assopire i moti repubblicani scoppiati a Milano e a Venezia per osteggiare il dominio asburgico; la pressione dell’opinione pubblica, sempre più favorevole alla lotta per l’unità e all’indipendenza d’Italia.

La Marmora inizialmente partecipò alla guerra come luogotenente, ottenendo, in seguito, il comando d’artiglieria della divisione Federici, grazie al quale contribuì alla vittoria sabauda a Pastrengo il 30 aprile.

Il mese successivo suo fratello Alessandro fu protagonista della seconda vittoria contro gli Asburgici a Goito, permettendo all’esercito piemontese di minacciare il Veneto austriaco.

Sconfitto a Custoza il 25 luglio 1848, Carlo Alberto ripiegò a Milano, dove fu costretto a firmare il 5 agosto l’armistizio col nemico, ormai in procinto di riconquistare il capoluogo lombardo e tutta la regione.

Alfonso La Marmora supportò e contribuì all’evacuazione del sovrano grazie al comando di un battaglione della brigata Piemonte e di una compagnia di bersaglieri.

Dopo la definitiva disfatta a Novara il 23 marzo 1849, La Marmora venne inviato a sedare una rivolta antimonarchica a Genova. L’intervento, nel bene e nel male, fu gravido di conseguenze.

Dalla violenza e risolutezza della repressione gli venne affibbiato dall’opinione pubblica l’appellativo poco lusinghiero di “cannoneggiatore del popolo”, mentre a livello ufficiale gli venne concessa la medaglia d’oro al valor militare, ottenendo inoltre il comando del secondo corpo d’armata.

Nel 1855, grazie all’intervento piemontese nella Guerra di Crimea, La Marmora divenne comandante supremo del contingente militare sabaudo, composto da circa 20.000 uomini.

Queste truppe si distinsero nella vittoria della Cernaia, avvenuta il 16 agosto del 1855 contro l’esercito dell’impero russo.

A conflitto concluso, Alfonso divenne un vero e proprio eroe nazionale ed internazionale, ottenendo approvazione anche dal governo ottomano per le sue imprese in Crimea.

Nel 1856 gli venne conferito il collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, accettando inoltre il prestigioso incarico di generale d’armata.

Dopo l’avventura Garibaldina e l’ingresso delle regioni meridionali al neo-costituito Regno d’Italia, il generale divenne prefetto e comandante generale delle truppe del sud Italia nel tentativo di contrastare il fenomeno del brigantaggio, carico che mantenne per tre anni.

Il suo ultimo importante incarico militare lo ottenne durante la Terza Guerra d’Indipendenza, diventando capo di stato maggiore dell’armata del Mincio.

Tuttavia il conflitto, scoppiato nel 1866 per strappare il Veneto all’Imperatore d’Austria, rivelò l’inadeguatezza dell’esercito italiano, sconfitto a Custoza e costretto ad attendere la vittoria dell’alleato prussiano per poter sperare di poter strappare territori al nemico.

L’infelice gestione delle operazioni militari indussero La Marmora alle dimissioni nel 1866 e a svolgere solamente un’altro incarico come luogotenente a Roma nel 1870-1871, prima del definitivo ritiro a vita privata e la morte, avvenuta nel 1874.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

GUERRA RUSSO-SVEDESE (1808-09)

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PROTAGONISTI:

  • Impero russo: Zar Alessandro I Romanov, generale Friedrich Wilhelm von Buxhoeveden, Nikolaj Michajlovič Kamenskij.
  • Regno di Svezia: Re Gustavo Adolfo IV Holstein-Gottorp, feldmaresciallo Wilhelm Mauritz Klingspor, comandante di fanteria Carl Johan Adlercreutz.
  • Impero francese, Regno di Danimarca-Norvegia.

INTRODUZIONE:

Nel 1807, nella cittadina prussiana di Tilsit (oggi Sovetsk in Russia), l’imperatore dei francesi Napoleone Bonaparte e lo zar di Russia Alessandro I si incontrarono presso il Memel, fiume che separava i confini dello Stato russo con la Prussia e, di conseguenza, con l’influenza francese. Nelle trattative, Alessandro ottenne la città di Białystok e mano libera contro gli Ottomani e la Persia, ma fu costretto a riconoscere l’indipendenza del Ducato di Varsavia e la sua unione personale col Re di Sassonia, e frenare ulteriori mire verso i territori polacchi. Napoleone, invece, ottenne un prezioso alleato a est, che si unì presto al Blocco continentale, dove si proibivo lo sbarco delle navi inglesi nei territori occupati dalla Francia, dai suoi vassalli e alleati.

Durante l’incontro, Napoleone convinse l’imperatore russo a rivolgere la sua attenzione sulla Finlandia, territorio svedese dal XII secolo, e da decenni tra le zone di interesse strategico russe. Già nel 1743 l’allora zarina Elisabetta, nell’ennesima guerra contro la Svezia, aveva tentato di instaurare un Regno di Finlandia come un fedele vassallo russo, e rendendo la giovane capitale San Pietroburgo più sicura da attacchi nemici. Inoltre, con la sua annessione, la Finlandia avrebbe rafforzato l’Impero nell’area baltica. Dalla firma del trattato fino ai primi mesi del 1808, il governo svedese ignorò i richiami degli ambasciatori a proposito delle manovre russe. Alle cinque del mattino del 21 febbraio 1808, senza neanche una dichiarazione di guerra, le truppe di Alessandro varcarono il confine.

SVOLGIMENTO:

A guidare l’esercito zarista era il generale Friedrich Wilhelm von Buxhoeveden, nobile balto-tedesco, che aveva preso parte agli accordi di Tilsit. L’imperatore non gli aveva soltanto affidato il comando militare, ma anche il compito di salvaguardare la popolazione finlandese e di avvicinarla alla causa russa. Buxhoeveden riuscì a trovare il supporto dell’aristocrazia svedese in Finlandia, mentre la popolazione rurale, in larga parte, preferì rimanere fedele al re di Svezia Gustavo Adolfo IV. Questi, a causa della partecipazione della Svezia nelle guerre antinapoleoniche, aveva perduto non solo gli ultimi possedimenti svedesi in Pomerania, ma anche le antiche alleanze, lasciando isolato il Regno. Gustavo Adolfo affidò il comando al feldmaresciallo Wilhelm Mauritz Klingspor. All’inizio, la strategia svedese fu di ritirarsi dalla Finlandia meridionale, per sottoporre i russi a una dura marcia nella taiga finlandese. Questa decisione, tuttavia, mostrò il suo prezzo: gli zaristi occuparono subito le zone più popolate, nonché l’arcipelago delle Åland e l’isola di Gotland.

Klingspor decise, infine, di affrontare gli zaristi, e ordinò al suo comandante di fanteria Carl Johan Adlercreutz di attendere i russi nel paesino di Siikajoki. Gli svedesi prevalsero sui russi, ma solo dopo averli nuovamente sconfitti a Revolax pochi giorni dopo, il comando svedese ordinò l’avanzata. Nell’estate, gli svedesi batterono i russi a Lappo, e diedero a Gustavo Adolfo e al governo la certezza di vincere la guerra. Ma ai primi di settembre, le truppe russe contrattaccarono a Ruona fermando gli svedesi e, due settimane dopo a Oravais, al comando del generale Nikolaj Kamenskij, travolsero l’esercito svedese. I soldati rimasti ripiegarono a nord, lasciando l’intera Finlandia nelle mani di Buxhoeveden. Klingspor e Adlercreutz furono sostituiti, e la Danimarca (in accordo con la Russia e la Francia) penetrò nei confini occidentali della Svezia. Lo stato maggiore, il governo e il re erano sconvolti, e i soldati avevano perso ogni speranza. Incolpando Gustavo Adolfo dell’imminente sconfitta, nel marzo 1809 una giunta militare, a cui prese parte anche Adlercreutz, costrinse il re all’abdicazione e all’esilio, ponendo al trono suo zio Carlo XIII. Nell’agosto dello stesso anno, i russi penetrano nella Svezia settentrionale.

CONCLUSIONE:

All’indomani dell’invasione russa a nord, re Carlo XIII si mobilitò subito per firmare le trattative di pace, spinto anche dalle pretese degli aristocratici e generali che lo avevano portato al trono. Nei ventuno articoli della pace di Fredrikshamm (oggi Hamina in Finlandia), la Svezia cedeva i secolari territori finlandesi e l’arcipelago delle Åland all’Impero russo. Inoltre, il Regno fu portato a unirsi al blocco continentale. Pochi giorni dopo la firma della pace, i russi istituirono l’autonomo Granducato di Finlandia in unione personale coll’imperatore Alessandro I. Solo nel 1814, in compensazione per la perdita della Finlandia, alla Svezia fu concessa la Norvegia, perdendo definitivamente gli ultimi possedimenti pomerani a favore della Prussia.

BIBLIOGRAFIA:

  • MEINANDER Henrik, A History of Finland, Hurst Publishers, Londra, 2018.
  • The Final War. The Swedish-Russian War of 1808-09, link http://www.multi.fi/~goranfri/index.html , URL consultato il 2 febbraio 2021.