EVENTI CELESTI NEL MEDIOEVO

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Per secoli generazioni di cronisti e letterati medievali hanno riportato nelle loro opere testimonianze di strani eventi celesti principalmente eclissi e passaggi di comete, all’epoca fenomeni completamente inspiegabili e misteriosi.
Questi fenomeni generavano meraviglia ma soprattutto timore negli occhi degli spettatori, che in seguito li interpretavano come vere e proprie avvisaglie profetiche, anticipatrici di eventi più o meno funesti che sarebbero scaturiti di li a poco.
I più comuni sono le epidemie e le morti di cariche ecclesiastiche importanti, come abati o vescovi, ma anche importanti cariche laiche, come sovrani o imperatori.
Ma ecco alcune di queste testimonianze che ho ripreso da alcuni testi medioevali.
Numerose provengono dalle “Storie” di Rodolfo il Glabro, che scrive :”Venerdì 29 giugno dell’anno millesimo dalla passione di Cristo si ebbe un’agghiacciante eclissi, ossia mancanza di Sole, durata dall’ora sesta fino all’ottava”, poi aggiunge :”allora uno sbigottimento, un terrore sconfinato invase il cuore di ognuno: chiunque osservava il fenomeno intuì che esso annunziava qualcosa di infausto, una disgrazia che stava per abbattersi sull’umanità”, e conclude che proprio in quel giorno dei congiurati attentarono alla vita del pontefice, fallendo.
Nella stessa opera Rodolfo scrive :”Quattro anni più tardi, mercoledì 22 agosto […] all’ora sesta si ebbe una nuova eclissi di Sole. In quello stesso anno morì in Sassonia l’Imperatore Corrado.”
Nella Historia Longobardorum di Paolo Diacono, l’eclissi di Luna e di Sole del 680 d.C. preannunciarono una terribile pestilenza, che durò tre mesi.
Nell’opera cronachistica medievale nota come “Annales Cambriae”, è riportata un’altra eclissi di Sole, questa volta però senza apparenti consequenze nefaste, così è scritto “1288. Nel secondo giorno di aprile trascorsa la nona ora, è vista un eclissi nella parte superiore del Sole, che oltrepassa in seguito la materia del Sole, così che il Sole è visto come avere due corna alzate, e durò fino all’ora del vespro”.
Nel III libro delle “Storie”, Rodolfo il Glabro annota invece il passaggio di una cometa, che restò nel cielo per circa tre mesi e dopo il suo passaggio la chiesa del Beato Michele Arcangelo venne bruciata.
L’autore non mette in discussione la connessione tra il fenomeno sovrannaturale e l’importante evento che avviene sulla Terra poco dopo, come scrive in questo passaggio :” Un fatto è però dimostrato con certezza: tutte le volte che un fenomeno del genere appare ad occhio umano, esso annunzia per l’immediato futuro, con chiara evidenza, qualche avvenimento straordinario e terribile”.
Probabilmente la cometa descritta in precedenza è quella di Halley (1P/989 N1), passata, secondo i calcoli, tra l’agosto ed il settembre del 989 d.C. e che si pensava preannunciasse la fine del mondo.
Un’ulteriore passaggio di una cometa, questa volta non temporalmente coincidente con quella di Halley è brevemente accennata nel IV libro della Historia Longobardorum, il cui transito, gennaio 595, è considerato la causa della successiva morte dell’arcivescovo di Ravenna, Giovanni.
Per trovare una vera è propria definizione e non solo una mera descrizione del fenomeno, bisogna cercare nell’opera di Isidoro di Siviglia, “Etimologia”, in cui definisce la cometa come una stella, chiamata in questo modo perché diffonde i capelli della sua luce, affermando che quando questo tipo di stella appare provoca epidemie, carestie e guerre, come in precedenza appuntato da Rodolfo il Glabro.

FONTI:

  • Annales Cambriae, edited by John Williams, Cambridge Library Collection, Torrazza Piemonte, 2012.
  • R. IL GLABRO, Storie, a cura di Guglielmo Cavallo e Giovanni Orlandi, A. Mondadori Editore, Borgaro Torinese, 2011.
  • P. DIACONO, Storia dei Longobardi, a cura di Antonio Zanella con un saggio di Bruno Luiselli, Bur Rizzoli, Milano, 2018.

LA BATTAGLIA DI MANSURAH (8 febbraio 1250)

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PROTAGONISTI:

  • LUIGI IX, insieme alle truppe crociate
  • Fakhr al-Din Ibn Shaykh al-Shuyukh e Bairbas, insieme alle truppe arabe e beduine.

CONTESTO:

Pontoise, nord-ovest di Parigi, 1245.

Il regno di Francia rimane con il fiato sospeso per le sorti del suo amato sovrano, re Luigi IX, profondamente malato e prossimo alla morte. Da una condizione di estrema precarietà fisica tuttavia, come ci racconta Jean de Joinville, Senescalco della regione dello Champagne, il sovrano passa repentinamente ad una migliore situazione medica e fisica, per lui chiaro segno della benevolenza e del volere divino.

Nel fervente credente, qual’è in effetti Luigi, si genera così una forte volontà di prendere la croce e di partire per una possibile crociata contro gli infedeli musulmani in medioriente.

Inamovibile contro qualsiasi perplessità della corte, con lui decidono di partecipare all’impresa anche i suoi tre fratelli: Carlo, conte d’Angiò, Roberto, conte d’Artois e Alfonso III, conte di Poitiers.

Il piano per intraprendere questa spedizione è pressoché abbozzato, ponendosi come obbiettivo il più ricco e importante dei domini arabi, l’Egitto, in quell’epoca governato dalla dinastia Ayyubide, inaugurata dal famoso condottiero musulmano Saladino alla fine del XII secolo.

La partenza per l’oriente viene effettuata nel 1247, nel porto di Aigues Mortes nel sud della Francia, mentre l’arrivo degli armati a Cipro, scalo fondamentale per le azioni navali e terrestri in Terrasanta, avviene il 21 settembre del 1248.

Al Cairo il sultano al-Salih Ayyub prende atto della possibile invasione del nemico europeo e investe molte energie nel rafforzamento difensivo delle coste egiziane, soprattutto nei pressi di Alessandria e Damietta.

Il 30 maggio del 1249, forte della notevole cifra di 1800 imbarcazioni, Luigi IX salpa in direzione dei territori del Sultano.

Le avverse condizioni metereologiche però, causano notevoli perdite alla sua flotta, costringendolo ad aspettare, prima dello sbarco, le truppe del duca Ugo IV di Borgogna, del conte Guglielmo II di Longespee e del principe d’Acaia Guglielmo II di Villeharduin.

Il 5 giugno le truppe sbarcano senza troppi intoppi nei pressi di Damietta, in seguito occupata.

L’assenza di una vera e propria resistenza è dovuta allo scompiglio decisionale avversario causato dallo stato di grave indecenza medica in cui versava il sultano.

In seguito all’arrivo dei rinforzi del conte di Poitiers, il sovrano con i suoi fidati sostenitori discutono sulle successive mosse da intraprendere, Alessandria o Cairo ?

Molti tra i presenti, tra i quali l’impetuoso conte d’Artois, fratello del re, optano fermamente per la seconda, mentre altri per la prima. Alla fine Luigi IX decide di seguire coloro che premono per un attacco diretto al cuore politico della dinastia Ayyubide, il Cairo.

La marcia inizia in 28 novembre 1249 e dopo aver fatto varie tappe lungo la sponda del fiume Nilo, Luigi IX decide di sistemare il campo dell’armata sulle rime del fiume Bahr As-Jaghir, nelle vicinanze della città di Mansurah, a ridosso della quale viene imbastito anche l’accampamento arabo.

Nel medesimo periodo il sultano muore e viene eletto come suo successore Fakhr ad-Din ibn al-Shaykh, denominato dai cristiani Scecedin.

L’obbiettivo cristiano era quello di costruire un ponte per permettere il passaggio del grosso dell’esercito e così marciare verso Mansurah e scacciare l’esercito nemico.

Tuttavia la costruzione di questo ponte si rivela fin da subito molto ardua, più volte infatti esso crolla a causa dell’imperizia degli ingegneri occidentali, causando l’aumento del morale degli invasi, che riescono a lanciare sempre più frequenti assalti al campo cristiano, grazie ad un passaggio del fiume nei pressi della città di Sharamsah.

L’accampamento occidentale deve essere quindi difeso con più efficacia, e si decide quindi di posizionare le truppe di Carlo d’Angiò a presidio dell’area sud, rivolta verso il Cairo, mentre Alfonso di Poitiers, insieme alle truppe di Joinville, difendono l’area nord, verso Damietta.

Nei ripetuti assalti musulmani di dicembre, viene utilizzato varie volte quello che Joinville descrive come “un drago che stava volando attraverso l’aria”, cioè il fuoco greco, miscela infiammabile molto efficace utilizzata nel medioevo in area mediorientale.

Ovviamente l’utilizzo di quest’arma pone in svantaggio le truppe francesi, non solo da un punto di vista militare, ma anche da un punto di vista psicologico, creando panico e molta preoccupazione nel cuore dei crociati e dello stesso sovrano.

LO SCONTRO:

La fortuna sembra ritornare dalla parte di Luigi quando un beduino, sotto ingente pagamento, avvisa della presenza di un passaggio sicuro per attraversare il fiume a pochi chilometri dall’accampamento.

Luigi allora, insieme ai suoi tre fratelli decidono di scatenare la prima vera offensiva della campagna, è l’8 febbraio 1250.

Il contingente, formato da un corpo centrale più lento in cui vi è la presenza del sovrano, è costituito da un’avanguardia di Templari guidata dal Gran Maestro Rinaldo di Vichiers, ed è seguita dal battaglione di Roberto d’Artois.

L’imprudenza e la spavalderia di quest’ultimo tuttavia, lo incitano a lanciarsi all’inseguimento delle prime truppe nemiche che scorge oltre il fiume, staccandosi dalla restante parte dell’esercito.

Questa mossa viene subito riconosciuta come un grave errore tattico e un grande disonore arrecato alle truppe del tempio, che, per ordinanza regia, avevano il diritto di attaccare per prime il nemico.

L’avventatezza del conte tuttavia, almeno inizialmente, riesce a cogliere completamente impreparate le difese del campo avversario, il quale viene attaccato e molti armati nemici, tra i quali lo stesso emiro Fakhr al-Din Ibn Shaykh al-Shuyukh trovano la morte. La ritirata musulmana finisce all’interno delle mura di Mansurah, dentro le quali Roberto riesce a continuare il suo inseguimento, incurante del incombente pericolo per le sue irrisorie truppe.

Compresa l’esigua entità delle forze giunte a Mansurah, gli Ayyubidi, sotto il comando dell’emiro Bairbas, chiudono le vie d’uscita dalla città, intrappolando Roberto con 300 dei suoi.

La notizia giunge a Luigi, che ordina ai reparti di cavalleria, tra cui vi è anche Joinville, di liberare suo fratello.

La cavalleria però si trova in difficoltà, non riuscendo a mantenersi compatta ed in balia di un soverchiante numero di nemici. Carlo d’Angiò allora, insieme alle truppe reali, si precipitano in soccorso di Joinville e degli altri gruppi di cavalieri, permettendo così la loro salvezza ed il ritiro delle truppe nemiche.

L’armata, mantenendosi costantemente non troppo lontano dalle unità di supporto del duca di Borgogna, rimaste a difesa dell’accampamento, è però minacciata e sfiancata dal continuo bersagliamento delle unità a cavallo arabe.

La ritirata è dunque necessaria, Luigi riesce tuttavia a sistemare l’esercito nell’accampamento musulmano, in precedenza abbandonato dagli infedeli.

La nuova posizione si ritrova però ben presto accerchiata, dopo pochi giorni, dalle truppe fresche del generale Bairbas, che dispone di 4000 cavalieri, 3000 beduini e svariate truppe appiedate.

I beduini sono i primi che lanciano l’assalto, indirizzato verso la zona difesa dalle unità di Carlo d’Angiò, che viene immediatamente supportato dalle truppe regie.

La difesa crociata è così suddivisa:

A fianco dei battaglioni di Carlo ci sono quelli dei crociati di Cipro e di Terrasanta, comandati dai fratelli Goffredo e Baldovino di Ibelin.

In seguito si trovano i battaglioni di Walter di Chatillon, mentre gli uomini di Joinville combattono alla sinistra delle truppe del conte di Fiandra, a sua volta affiancato da Guy de Mauvoisin.

Se queste truppe sopportano bene gli scontri grazie alla presenza di reparti di cavalieri, le truppe guidate da Alfonso di Poitiers non riescono a reggere l’urto nemico, venendo sopraffatte. Lo stesso conte rischia la cattura.

CONCLUSIONE:

A seguito di questi scontri, che tuttavia riescono a respingere le varie sortite nemiche, Luigi IX mantiene la posizione, per poi iniziare una lenta ritirata verso Damietta nella primavera del 1250, a seguito di una grave epidemia scoppiata all’interno del campo, aggravata da una forte carestia.

Anche se Luigi ed il sultano sono pronti per attuare dei negoziati per far finire le ostilità, le cose tuttavia non vanno per il verso giusto ed il sovrano francese viene catturato nella località di Moniat Abdallah, mentre il sultano viene ucciso dagli emiri, ed in particolare da Faras ad-din Aktav, per paura di essere in futuro giustiziati dal sultano a causa del loro accresciuto potere durante gli eventi bellici.

Così si conclude dal punto di vista militare la campagna egiziana, anche se, una volta liberato Luigi IX, a seguito di un’ingente riscatto di 500.000 livres, la crociata finirà solamente quattro anni dopo in Terrasanta.

FONTI:

ITALIA BIZANTINA: LIGURIA E LOMBARDIA

A Milano, presso i musei del castello sforzesco, è possibile ammirare diversi reperti bizantini: una testa in marmo lunga 16 cm raffigurante molto probabilmente l’imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano; il dittico consolare raffigurante Magno, console nel 518; il dittico eburneo di Giustiniano quando era console nel 521.

Sempre a Milano, fa parte del Tesoro del Duomo il dittico “greco” raffigurante le Feste del Signore. Avorio, XI secolo.

Astrolabio risalente al 1062, presso il museo civico di Brescia. Il calendario bizantino era differente da quello che all’epoca si utilizzava in Occidente, i bizantini contavano gli anni dalla creazione del mondo che, secondo Teofane, avvenne il 1° settembre 5509 avanti Cristo. L’anno riportato nell’astrolabio è il 6750, da qui si ricava l’anno dalla nascita di Cristo, cioè, appunto, il 1062.

Mandylion di Genova, situato presso la Chiesa di San Bartolomeo degli Armeni. Fu portato nel 1362 da Costantinopoli, un Mandylion sarebbe un’immagine impressa del Cristo.

LA GERMANIA ORIENTALE (X-XII secolo)

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PROTAGONISTI:

  • Regno dei Franchi orientali, Marche orientali, Sacro romano impero, Margraviato di Brandeburgo: re Enrico I l’Uccellatore, Tietmaro di Menseburgo, Gerone di Merseburgo, imperatore Ottone I, margravio Alberto I di Ballenstedt detto l’Orso.
  • Tribù slave pagane: principe Tugumir, principe Pribislao, Jaksa di Copnic.

PARTE I: dal X all’XII secolo, a ovest dell’Oder

A seguito della migrazione dei Burgundi, si insediarono nei territori dell’attuale Polonia centroccidentale, nel VI secolo, tribù slave occidentali pagane. In particolare gli Evelli, assimilarono la residua popolazione indigena, nonostante la conservazione di tracce di termini germanici nei nomi dei fiumi (Elba, Saale, Havel) e di alcune regioni minori. Proprio sul fiume Havel si sviluppò Brennabor, o Branibor, un insediamento slavo fortificato risalente al VII secolo. Altri insediamenti, la cui origine risale alla colonizzazione slava, furono le attuali Lipsia (dallo slavo comune lip, tiglio), Lubecca (da ljub, amare) e Berlino (da berl o birl, palude). Nel 929, il re dei Franchi orientali Enrico I l’Uccellatore conquistò Brennabor, chiamata “Brandeburgo” dai tedesci, destituì il principe evelliano Tugumir e affidò la regione nelle mani del suo istitutore Tietmaro, eletto “margravio” della Marca con sede a Merseburgo, che a sua volta la lasciò in eredità al figlio Gero. Questa eredità comprendeva anche i territori degli Obodriti, a nord di Brandeburgo, e dei Lusazi, a sud di Brandeburgo. Rimasto senza eredi maschi, Gero morì nel 965, dopo aver combattuto per tutta la vita contro le tribù slave nel tentativo di cristianizzarle.

Alla morte del margravio, Ottone I, re dei Franchi orientali nonché figlioccio di Gero, divise nel 965 la Marca di Merseburgo in marche più piccole: la Marca dei Billunghi, comandata dall’eponima dinastia sassone e situata nei territori obodriti, le marche di Meißen, di Lusazia, di Zeitz e la rimpicciolita Marca di Merseburgo. La più grande delle neonate marche fu, tuttavia, la Marca del Nord con centro Brandeburgo, dove era da poco stata fondata l’omonima diocesi, che si fece promotrice di una severa cristianizzazione. Questa, unita al cattivo governo del margravio della marca Teoderico di Haldensben, scoppiò nel 983 una rivolta delle popolazioni evelliane e obodrite. Gli slavi riconquistarono Brandeburgo e strapparono al Regno la Marca dei Billunghi e del Nord, ma non riuscirono a penetrane in Lusazia. I missionari e i vescovi furono cacciati, mentre la Diocesi e i Margraviati continuarono a esistere solo de iure per quasi due secoli.   

PARTE II: Alberto l’Orso e la riconquista di Brandeburgo

Nel 1127 divenne signore di Branibor il principe evelliano Pribislao, pagano di nascita ma battezzato da bambino col nome tedesco di Heinrich. Il Principe intrattenne ottimi rapporti col vicino Sacro romano impero, in particolare col margravio della Lusazia Alberto di Ballenstedt, divenendo padrino del primogenito del nobile tedesco. Pribislao riuscì a farsi riconoscere signore di Branibor dallo stesso Imperatore germanico, ma quando morì nel 1150 la città passò sotto il controllo di Alberto, grazie ad un accordo stretto col defunto Principe un decennio prima.

Ma Jaksa di Copnic (oggi Köpenick, quartiere di Berlino), parente di Pribislao, non riconobbe la successione e, con l’aiuto dei vicini ducati polacchi e della popolazione rurale di Branibor e dintorni ancora legata al paganesimo, prese il controllo della città nel 1153. Quattro anni dopo Alberto guidò una spedizione sull’Havel e riconquistò la città, che da quel momento riprese il toponimo tedesco, ritornando capitale della Marca del Nord, più tardi conosciuta come Margraviato di Brandeburgo. Alberto mise subito un atto una politica di cristianizzazione, germanizzazione e di colonizzazione. Fu lui a rifondare la città di Berlino, che secondo le fonti tedesche del XIX secolo prenderebbe il nome dalla parola Bär (orso), simbolo della città; tuttavia, i primi riferimenti alla futura capitale prussiana e tedesca, come accennato nel primo paragrafo, risalgono all’epoca altomedievale e slava. Il Margraviato era una territorio pianeggiante, sabbioso, con pochi alberi e spesso paludoso. Tuttavia Alberto incoraggiò con successo l’arrivo di coloni tedeschi e fiamminghi, ma non mancarono francesi, italiani e inglesi. Gli Slavi convertiti e non germanizzati si concentrarono nella foresta della Sprea o Spreewald.

BIBLIOGRAFIA:

  • CLARK Christopher, The Iron Kingdom: The Rise and Downfall of Prussia 1600-1947, Penguin, Londra, 2007.
  • GARZANITI Marcello, Gli Slavi. Storia, cultura e lingue dalle origini ai giorni nostri, Carrocci, Roma, 2013.
  • REUTER Timothy, Germany in the Early Middle Ages 800 – 1056, Routledge, New York (NY), 2013.

CASIMIRO III IL GRANDE – PARTE SECONDA

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PROTAGONISTI:

  • Regno di Polonia: Casimiro III Piast il Grande.
  • Regno d’Ungheria, Ducato di Lituania.

Prima e seconda parte

PARTE III: la politica interna di Casimiro III

Aiutato da consiglieri ecclesiastici e laici di provata fiducia e bravura, spesso neppure originari del Regno,  Casimiro dotò la Polonia di un’amministrazione efficace. Il culmine di questa rinascita statale fu l’apertura, nel 1364, dell’Università di Cracovia, l’attuale Jagellonica, la prima università polacca e la seconda dell’Europa centrorientale dopo la Carolina di Praga, sorta nel 1348. A Cracovia si insegnavano l’astronomia, il diritto e la medicina, ma non la teologia: non legata al Sacro romano impero, e dunque più indipendente da Roma, una cattedra di teologia in territorio polacco avrebbe potuto causare una frattura tra la Chiesa polacca e romana. I docenti cracoviani miravano alla formazione di giuristi e uomini di Stato per uno dei regni più grandi d’Europa.

Con la crescita dell’importanza di Cracovia, centro della Piccola Polonia, i rapporti con la Grande Polonia, il cui centro dell’epoca era la città vescovile di Gniezno, peggiorarono, e Casimiro non fece nulla per diminuire i contrasti. Anzi. Stabilito un accordo coi Cavalieri teutonici, i confini nordoccidentali si erano rafforzati, e ciò permise al Re di confiscare il tesoro vescovile nel 1352. Il ricavato servì a finanziare le campagne militari e rafforzare il controllo della Galizia. La confisca dei beni ecclesiastici, unita alle rivendicazioni regie di alcuni territori strategici, portarono a una breve rivolta nella regione, sedata in pochi mesi. Il capo della rivolta fu lasciato morire di fame in carcere, come esempio. 

Casimiro, inoltre, trovò il modo di mantenere un adeguato numero di truppe, permettendo agli amministratori di villaggi contadini (i wójtowie, dal tedesco Vogt e traducibile con “balivo”) di prendere parte alle campagne militari assieme alla classe dei cavalieri. Grazie anche all’arrivo di Ebrei provenienti dal Sacro romano impero, a cui il Re permise di insediarsi in sobborghi o enclavi delle grandi città, la popolazione del Regno crebbe come mai da decenni. Cinquanta castelli e città sorsero in Polonia durante il principato di Casimiro, mentre a Cracovia furono create due corti d’appello, indipendenti dalla corte imperiali di Magdeburgo. Notabile, inoltre, fu l’afflusso di Armeni, che dal Caucaso si spostarono nei territori orientali del Regno.

PARTE IV: gli ultimi anni e l’unione con l’Ungheria

In cambio degli aiuti ricevuti in Boemia e in Galizia da Luigi I d’Angiò, Casimiro promise al nipote magiaro che le terre polacche sarebbe finite in unione personale col Regno d’Ungheria. Casimiro, tuttavia, non fu mai convinto di lasciare il regno agli Angioini. In vita sua si sposò quattro volte, divorziò due volte e rischiò l’accusa di bigamia. Ma dai matrimoni nacquero cinque figlie e nemmeno un maschio. La legge salica, che concedeva il titolo regio soltanto ai discendenti maschi, impedì alle figlie di ereditare il Regno. Alla fine degli anni ’60 del Trecento, Casimiro annetté il Ducato di Chełm, mentre la situazioni in Galizia poteva dirsi stabilizzata: l’Orda d’oro era troppo debole per attaccare le terre della Corona, mentre i nobili ortodossi galiziani si erano rifugiati nel Ducato di Lituania.

Nel 1770, Casimiro si spense, e con lui il ramo principale della famiglia Piast, la stessa che nel 966 aveva dato origine al Regno di Polonia. I rami cadetti della casata, tuttavia, continuarono a governare i Ducati masoviani fino al XVI secolo. Come d’accordo, Luigi I d’Angiò divenne re di Polonia, mentre i Cavalieri teutonici, in accordo col sovrano ungherese, riannetterono la città e il territorio di Dobrzyń.

BIBLIOGRAFIA:

  • DAVIES Norman, Heart of Europe: The Past in Poland’s Present, Oxford University Press, Oxford, 2001.
  • GARZANITI Marcello, Gli Slavi. Storia, cultura e lingue dalle origini ai giorni nostri, Carrocci, Roma, 2013.
  • LUKOWSKI Jerzy, ZAWADZKI Hubert, Polonia. Il paese che rinasce, Beit, Trieste, 2009.

CASIMIRO III IL GRANDE (1310-1370) – PARTE PRIMA

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PROTAGONISTI:

  • Regno di Polonia: Casimiro III Piast il Grande, Ladislao I Piast il Breve.
  • Regno di Boemia, Regno d’Ungheria, Ducato di Lituania, Principato di Galizia.

PARTE I: il Regno di Polonia e il Sacro Romano Impero prima di Casimiro

Le vicende di Casimiro III, l’unico re polacco a cui è stato attribuito l’epiteto “il Grande”, cominciano nel Principato della Cuiavia. Era questo uno degli Stati nati alla divisione del Regno di Polonia nel 1138, e accentuatasi nel corso del XIII secolo. I membri della dinastia Piast si spartivano i Principati al momento della morte del proprio signore. Ogni figlio maschio otteneva una parte del territorio. Al più potente e armato spettava la fetta più grande e ricca; ai più deboli il resto. Casimiro nacque nel 1310 vicino a Inowrocław in Cuiavia, dove il padre Ladislao governava quale principe della Cuiavia. Prima della nascita del figlio, Ladislao era stato anche principe della Grande Polonia, la cui capitale era Gniezno, e poi di Sandomierz, per poi tornare a essere signore della Grande Polonia, pochi anni dopo la nascita di Casimiro. Era prassi che i Piast si scambiassero i principati, dopo lunghi accordi, o li vincessero dopo guerre. Non erano estranei a questi accordi dinastici anche i vicini principati ruteni, slavi orientali di religione ortodossa che da cent’anni erano alle prese con l’Orda d’oro.  

Con l’appoggio di papa Giovanni XXII, nel 1320, Ladislao riuscì a farsi incoronare re di Polonia a Cracovia, sede del primus inter pares tra i principi Piasti, tra le proteste di Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia che reclamava la corona polacca, del Marchese di Brandeburgo e dei Cavalieri dell’Ordine teutonico, i quali conducevano una guerra alterna con Ladislao da quasi vent’anni. Nello stesso anno, però, Ladislao trovò un prezioso alleato nel confinante Regno d’Ungheria, retto dall’angioino Carlo Alberto, che prese per moglie Elisabetta, figlia del Re polacco e sorella di Casimiro. E per ragioni di Stato, Ladislao siglò un accordo col Duca di Lituania, uno dei pochi sovrani europei ancora pagano. Questi accordi, tuttavia, non permisero al Re di difendersi adeguatamente: perdette le città di Inowrocław e Dobrzyń a favore dei Cavalieri teutonici e non riuscì a sottomettere il Ducato di Płock e la regione della Masovia. Nel 1332 Ladislao morì, lasciando un regno meno esteso di quello che aveva ereditato nel 1320, e Casimiro, unico figlio rimastogli, salì al trono.        

PARTE II: le guerre in Galizia e Boemia

I sudditi di Casimiro ammontavano a circa ottocentomila anime, meno della metà di coloro che potevano essere denominati “polacchi”. Per questo, all’indomani dell’incoronazione, Casimiro era considerato dai duchi e principi polacchi più quale “re di Cracovia”, che “re di Polonia”. Nel primo decennio del regno, Casimiro fece valere la sua autorità regia sui vassalli della Corona di Polonia. Nel 1340 il principe Boleslao Piast fu scelto quale sovrano del Principato di Galizia, con capitale Halyč (Halicz in polacco) e, per questo, fu obbligato a convertirsi al Cristianesimo ortodosso, prendendo il nome di Giorgio II. Tuttavia, la nobiltà locale, inimicatasi il nuovo sovrano per via dei suoi sentimenti filocattolici, riuscirono ad avvelenarlo e a creare un vuoto di potere. Casimiro, in accordo col Duca di Lituania, penetrò in Galizia e sottomise in pochi anni la regione occidentale del Principato. Alla Lituania, spettò, invece, il vassallaggio della parte orientale. I nuovi territori, ricchi di terreni fertili e prossimi al Mar Nero, arricchirono la Corona e la nobiltà polacca, il cui centro principale passò da Halycz a Leopoli.

A Occidente, nel 1343, Casimiro strinse un accordo coi Cavalieri teutonici nella cittadina di Kalisz. In cambio della restituzione di Inowrocław e Dobrzyń, la Polonia rinunciava alla Pomerania e a Danzica. Due anni dopo scoppiò una guerra contro la Boemia dei Lussemburgo, sul controllo dei ducati slesiani. Casimiro, ancora impegnato in Rutenia, fu costretto a cedere e nel 1348 riconobbe l’annessione della Slesia alla Boemia, nonostante l’appoggio del nipote Luigi II d’Ungheria, figlio della sorella Elisabetta. La Slesia e la Pomerania, perdute a seguito dell’anarchia feudale dei secoli precedenti, sarebbero tornate sotto la sovranità polacca solo alla fine della Seconda guerra mondiale. In compenso, il Re boemo fu costretto a rinunciare alle sue pretese sul principato di Płock e sulla Masovia, dove, nel frattempo, il principe Ziemowit III era divenuto vassallo di Casimiro, promettendo in eredità al Re il Principato a condizione della nascita di un erede maschio legittimo.

BIBLIOGRAFIA:

  • DAVIES Norman, Heart of Europe: The Past in Poland’s Present, Oxford University Press, Oxford, 2001.
  • GARZANITI Marcello, Gli Slavi. Storia, cultura e lingue dalle origini ai giorni nostri, Carrocci, Roma, 2013.
  • LUKOWSKI Jerzy, ZAWADZKI Hubert, Polonia. Il paese che rinasce, Beit, Trieste, 2009.

LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI E L’IMPERO LATINO (1204-1216)

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PROTAGONISTI:

  • Impero Bizantino: Alessio III, Isacco II, Alessio IV, Alessio V
  • Impero Latino: Baldovino di Fiandra, Enrico di Fiandra
  • Venezia: Enrico Dandolo
  • Impero di Nicea: Teodoro I Lascaris
  • Regno d’Epiro: Michele I Angelo
  • Sultanato di Iconio

Verso la fine del XII secolo nell’Impero Bizantino si consumarono gli ultimi atti di una forte crisi che, agli occhi di numerosi storici, colpì Costantinopoli sotto vari punti di vista, vedendone i podromi già nella prima metà dell’XI secolo, poco dopo la morte dell’imperatore Basilio II nel 1025.

Questa crisi raggiunse il suo apice tra il 1180 ed il 1195.

Innanzitutto un grave deterioramento del potere centrale, per molti secoli punto cardine della potenza e dell’efficienza burocratica bizantina.

Il risultato che questo provocò fu una sempre maggiore mancanza di controllo amministrativo nei territori periferici, diffondendone rapidamente violenti moti di ribellione, che culminarono con l’indipendenza della Bulgaria nel 1185.

L’esercito imperiale era quasi interamente costituito da truppe mercenarie europee o asiatiche, che ne aumentavano la professionalità ma ne diminuivano la tenuta in battaglia, il senso di attaccamento all’imperatore e venivano a essere un notevole peso fiscale per le finanze statali.

Infine l’ingerenza commerciale Veneziana e Genovese nell’Egeo soffocava l’economia bizantina, costretta a cedere privilegi sempre maggiori ai mercanti delle due città portuali d’Italia.

Venezia, in particolare, cercò in tutti i modi di contrastare il potere genovese nel Mediterraneo orientale, cresciuto vertiginosamente grazie all’impiego delle proprie flotte durante le Crociate dell’XI secolo.

Sfruttando l’ancora vivo sentimento per la guerra santa contro gli infedeli musulmani per la liberazione del Santo Sepolcro, l’astuto Doge Enrico Dandolo riuscì a far indire dal Pontefice una nuova Crociata, indirizzata, secondo i piani originali, verso i ricchi territori egiziani.

Ben presto, tuttavia, l’abile diplomazia veneziana modificò a proprio vantaggio gli obbiettivi della spedizione, lanciandola nel 1202 contro la città ribelle di Zara, lungo la costa Dalmata.

L’anno seguente i veneziani giunsero ad un accordo con Isacco II e suo figlio Alessio.

Isacco, imperatore di Bisanzio dal 1185 al 1195, era stato detronizzato dall’usurpazione di Alessio III, che sedeva ancora al trono.

L’obiettivo per Isacco e suo figlio era quindi riprendersi con l’appoggio occidentale il controllo dell’impero, anche concedendo un cospicua parte di sovranità ai potenti veneziani.

Dopo un breve e vittorioso attacco a Costantinopoli, nel luglio del 1203, Alessio riuscì a diventare imperatore, il quarto del suo nome.

Il rapido successo dell’operazione svanì quando, a seguito di un’insurrezione cittadina, Isacco II e Alessio IV vennero detronizzati da Alessio V.

Quest’azione fu il segnale che costrinse i crociati ad intervenire, espugnando e saccheggiando la capitale nella primavera del 1204.

L’impero dunque si ritrovò ad essere spartito tra i vincitori, primi fra tutti i veneziani, che ottennero il totale dominio navale ed economico dell’Egeo e del Mediterraneo orientale.

Nei Balcani si vennero a creare un agglomerato di regni feudali più o meno estesi, legati da blandi vincoli di fedeltà a nuovo imperatore di Bisanzio.

Costantinopoli si trovò infatti ad essere il nucleo del cosiddetto Impero Latino, comprendente grossomodo il territorio tracico e avente come nuovo imperatore Baldovino di Fiandra.

La seconda città del defunto impero romano, Tessalonica, venne concessa al Marchese Bonifacio del Monferrato, comandante in capo dell’esercito crociato.

Il potere di quest’ultimo si estendeva anche in Attica ed in Beozia, guidata da Ottone de la Roche.

Nel Peloponneso padroneggiava invece Goffredo di Villehardouin, che riuscì ad instaurare il Principato d’Acaia, una vera e propria colonia francese in territorio greco.

Attriti di stampo religioso e sociale tuttavia deteriorarono ben presto i già delicati rapporti tra la popolazione greca e i dominatori occidentali.

Questo costrinse molti ex-sudditi imperiali ad andare a rifugiarsi negli ultimi tre stati rimasti nelle mani di potenti dinastie bizantine.

In Asia minore permanevano infatti:

L’Impero di Nicea, guidato dall’abile Teodoro I Lascaris e l’Impero di Trebisonda, controllato da Alessio e David Comneno.

Michele I Angelo, infine, era il sovrano del Regno d’Epiro, l’unico dominio bizantino nei Balcani.

Tra questi, Teodoro I Lascaris si ritrovò a dover rispondere agli attacchi dell’Impero Latino, che nel 1204 decise di lanciare un attacco in Asia Minore.

L’offensiva, condotta da Enrico di Hainaut e da Ludovico di Blois, ottenne un’iniziale vittoria a Poimanenon, per poi interrompersi improvvisamente a causa di urgenti problemi sul fronte balcanico.

In Tracia infatti, Costantinopoli si ritrovò a dover arginare un’improvvisa invasione bulgara condotta dallo Zar  Kalojan.

La guerra si concluse con una completa disfatta Latina ad Adrianopoli nell’aprile 1205, che provocò la parziale perdita della Tracia settentrionale e la cattura dello stesso imperatore Baldovino I.

Una volta saputa la sua morte in prigionia, Enrico di Hainaut venne incoronato imperatore di Costantinopoli nel 1206, normalizzando i rapporti diplomatici con l’Impero di Nicea l’anno successivo.

In quegli anni venne firmata un’intesa tra il Regno d’Epiro e l’Impero Latino che si concluse con la liberazione del vecchio usurpatore Alessio III, dal 1204 in mano agli europei.

Alessio III, convinto di potesi impadronire facilmente dei domini di Teodoro I Lascaris, riuscì ad allearsi e ad essere ospitato alla corte del Sultanato turco di Iconio.

La guerra che ne derivò si concluse nel 1211, con la vittoria finale dell’esercito niceano.

Contemporaneamente alla vittoria ad oriente, Teodoro dovette subire la seconda invasione latina condotta da Enrico, che anche in questa situazione riuscì a vincere l’esercito avversario in una battaglia campale, a Rindaco.

Per mancanza di ulteriori risorse tuttavia, entrambi i sovrani dovettero giungere ad una pace, conclusasi nel 1214.

Con la morte dell’energico Enrico nel 1216, iniziò una nuova fase della politica balcanica segnata dall’inarrestabile decadenza dell’Impero Latino e dalle lunghe guerre tra Bulgaria, Epiro e Nicea per il controllo della città di Costantinopoli, che porterà nel 1261 alla sua conquista da parte delle truppe niceane condotte da Alessio Strategopulo.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

  • Warren TREADGOLD, Storia di Bisanzio, Il Mulino Editore, Bologna, 2019
  • George OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, Einaudi Editore, Trento, 2020

LA BATTAGLIA DI AZINCOURT (25 ottobre 1415)

PROTAGONISTI:

  • Regno d’Inghilterra: Enrico V con al seguito 6-9.000 uomini di cui i 5/6 arcieri e 1/6 uomini d’arme e cavalieri appiedati;
  • Regno di Francia: Carlo I d’Albret, 15.000 uomini di cui 10.000 cavalieri e uomini d’arme, 5.000 arcieri e balestrieri e fino a 10.000 servitori.

CONTESTO:

Enrico V d’Inghilterra salì al trono nel marzo 1413. Dotato di un profondo senso del dovere e attorniato da un’aura cavalleresca, Enrico era ansioso di farsi onore su un campo di battaglia, onde rinnovare le vittorie ottenute nel secolo precedenti da Edoardo III. Dopo un’iniziale politica mirata al rafforzamento della sua figura e della popolarità del Casato di Lancaster, le mire espansionistiche puntarono verso la Francia, territori dove lo stesso Re aveva rivendicazioni dinastiche. La Francia, dal canto suo, non poteva trovarsi in un momento storico peggiore: il governo di Carlo VI, detto ‘il Folle’ per la malattia mentale che lo affliggeva, aveva portato il paese in uno stato di totale anarchia dove Armagnacchi e Borgognoni si contendevano il potere in nome del sovrano.
Enrico era disposto a rinunciare alle pretese di discendenza del trono francese in cambio di una serie di riconoscimenti e privilegi; le pretese inglesi tuttavia furono troppo ampie e i francesi non accettarono. Questo porterà Enrico, nel 1415, dopo un’intensa campagna mirata a pubblicizzare e a raccogliere risorse, all’inizio di una nuova offensiva in terra francese.

LA CAMPAGNA FRANCESE:

Enrico V a capo di un esercito di 12000 uomini d’arme e 20000 Cavalieri, raggiunge nell’agosto del 1415 le coste francesi. Consolida la sua posizione tramite la conquista della fortezza di Harfleur, che divenne un punto nevralgico per i collegamenti con la madrepatria. Nel settembre dello stesso anno Enrico prosegue la sua marcia verso Calais  dove avrebbe atteso la fine dell’inverno. Lasciato un contingente a difendere la fortezza, iniziò la propria marcia con un esercito di circa 6000 uomini. Il suo intento era di rimanere in Francia per dimostrare che le sue pretese al trono non erano solo teoriche. Nel frattempo i nobili di tutta la Francia avevano risposto alla chiamata alle armi e oltre all’esercito regolare composto da oltre 9000 uomini, numerosi nobili francesi accorrevano per impedire l’avanzata inglese. L’esercito francese non era ancora riuscito a organizzarsi, ma nel frattempo piccoli contingenti attaccavano tramite una guerriglia l’esercito inglese con l’obiettivo di sfiancarlo. Solo il 25 ottobre, quando gran parte delle truppe francesi riusciranno a riunirsi presso Azincourt si giunse allo scontro campale.

LO SCONTRO:

Secondo la visione tradizionale i soldati a disposizione di Enrico erano dai 6000 ai 9000 uomini di cui 1/6 uomini d’armi e cavalieri appiedati e 5/6 arcieri, questi si disposero secondo tre gruppi: due battaglioni alle ali composti prevalentemente da arcieri mentre il Battaglione centrale composto dagli uomini d’arme.

Le truppe inglesi erano inoltre protette da fortificazioni campali composti da pali appuntiti conficcati nel terreno, con l’obiettivo di creare una difesa contro la cavalleria francese.

 Lo schieramento francese invece era molto più complesso, composto da 10000 uomini d’arme più 4 o 5000 uomini appiedati tra cui arcieri e balestrieri genovesi. a questi vanno ad aggiungersi 10.000 valletti e scudieri armati che prenderanno parte al combattimento insieme ai loro signori. L’esercito francese non solo godeva di una notevole superiorità numerica, ma poteva contare anche sull’appoggio di ulteriori rinforzi che stavano arrivando dalle città vicine. Sicuri della vittoria, molti nobili e aristocratici si portarono in prima linea per ottenere maggiori glorie nel campo di battaglia.

L’esercito inglese già inferiore per numero, si trovava in gravi situazioni a causa di carenze alimentari e per la diffusione di malattie, inoltre era isolato dato che i contingenti francesi bloccavano loro la ritirata.

Alle prime luci del 25 ottobre i due eserciti si scontrarono. L’esercito inglese assume fin da subito una posizione difensiva lasciando l’assalto principale alle truppe nemiche.

Tuttavia il terreno in cui si svolse lo scontro giocò a favore degli inglesi: ricoperto di fango e limitato dalla boscaglia, la carica francese rallentò e al tempo stesso si schiantò contro le palizzate nemiche e sotto una fitta pioggia di frecce sarà costretta alla ritirata, una fuga scomposta che porterà ad un’ulteriore carica presso le truppe appiedate francesi presenti nelle retroguardie.

Una seconda carica venne effettuata degli uomini d’arme appiedati che tuttavia carichi di armature pesanti, in un terreno impervio e sotto una costante pioggia di frecce non riuscirono a fare indietreggiare le linee inglesi che non solo resistettero ma riuscirono a catturare gran parte di questi corpi armati.

La retroguardia francese cominciò a riorganizzarsi per un ipotetico ulteriore attacco, le truppe inglesi che in questo momento stavano riportando un’importantissima vittoria erano tuttavia stremate dalla fatica. Enrico V ordino ai suoi uomini di uccidere parte dei prigionieri, questa decisione fu presa per paura che quest’ultimi realizzassero di essere superiori in numero e un loro riarmo avrebbe sopraffatto le esauste forze inglesi.

Questo massacro colpì la retroguardia francese che dopo aver visto il tragico destino dei loro compagni, si disperse nella Boscaglia.

Nel breve periodo questa battaglia non portò a grandi espansioni territoriali britanniche ma avrà un grandissimo impatto politico nel mondo francese: in una sola battaglia la Francia aveva visto cadere un gran numero di nobili e aristocratici. Questo porterà alla riapertura dei vari conflitti interni della nobiltà francese che farà ulteriormente indebolire il governo centrale. Parallelamente la vittoria di Enrico rafforzò la popolarità e la legittimità della casata dei Lancaster sul trono inglese e faciliterà future campagne di conquista inglesi in Francia.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E ICONOGRAFICHE:

LA SARDEGNA (IX-XV secolo)

STRUTTURA:

La Sardegna presentava una realtà completamente differente rispetto altri stati italiani rinascimentali. Fino alla metà del XII secolo, l’isola era divisa in quattro piccoli stati monarchici indipendenti di origine bizantina organizzati su una base territoriale. Queste entità, di piccole dimensioni, chiamate ‘Giudicati’ erano al centro di un fenomeno di accentramento del potere. Questi in origine erano governati da due figure politiche: un Dux, il governatore, e da uno iudex, il giudice. Il dux era una carica non ereditaria mentre lo iudex era una carica ereditaria. Questi svolgevano funzioni di controllo e di amministrazione statale in nome del governo bizantino; col passare del tempo questi compiti saranno ricoperti dalla sola figura del re, una carica che acquistò i poteri delle due magistrature precedentemente esistite. I re spesso provenivano dalle famiglie degli antichi iudex (da cui poi giudicati) capaci di garantire una successione dinastica e quindi di far ereditare i poteri da loro ricoperti anche ai successori. I quattro giudicati: Cagliari, Arborea, Logudoro o Torres e Gallura erano divisi in piccole province, all’incirca una quindicina per stato. Ogni provincia prevedeva al suo interno la presenza di un governatore nominato dal giudice che veniva chiamato curato. Questa organizzazione territoriale prevedeva poi la presenza di unità amministrative di base chiamate villaggi dove al loro interno agivano i Maio ovvero i capi villaggio nominato dal curato con il compito di occuparsi delle questioni legate alla giustizia e al campo fiscale e con compiti di polizia.

Non solo l’organizzazione politica ma anche quella sociale  rappresentava un esempio inedito per quanto riguarda gli scenari italiani. La società Sarda era divisa in due gruppi: l’aristocrazia e il popolo. Al vertice di questo troviamo il gruppo di maiores ovvero l’aristocrazia organizzata secondo  due titoli nobiliari: i Donnikellu, titolo nobiliare che spettava solo a chi faceva parte della famiglia dei quattro giudici e quella dei Donnu riservata alle famiglie dei curatori. Questa struttura sociale rimase in vita anche durante il XII secolo periodo in cui l’isola Sarda entrava a far parte delle orbite delle Repubbliche Marinare in particolar modo di Pisa e Genova e durante il regno Aragonese.

È proprio infatti nel XII secolo che molte famiglie aristocratiche italiane come ad esempio i Malaspina e la famiglia Doria per motivi economici si stabiliscono sull’isola Per facilitare gli scambi commerciali. In questo periodo nascono nuove figure politiche, come ad esempio la figura dei Castellani con il compito di controllare le coste o i sindaci portuali, per aumentare il controllo di queste nuove famiglie continentali nelle sfere politiche del controllo dell’isola. Inizialmente l’arrivo di Queste famiglie non porta ad alcuna trasformazione istituzionale: le 4 monarchie rimasero pressoché invariate. Tuttavia cominciarono già a evidenziarsi delle prime trasformazioni istituzionali e sociale, come ad esempio l’immissione dei legami vassallatico-feudali, fin’ora una realtà sociale sconosciuta alla popolazione sarda, che si consolidarono poi nel corso del 300 grazie all’immissione di numerose famiglie aragonesi nelle dinamiche sarde.

 Tra il 2 e 300 cambiano anche i rapporti fra i poteri centrali monarchici e centri urbani. L’influenza delle città marinare favorisce lo sviluppo di centri comunali che cominciano a espandere il proprio controllo anche sui contadi circostanti favorendo quindi la nascita di centri urbani di modeste dimensioni che tuttavia contrastavano il potere centrale della monarchia. Tali città sono Cagliari, Alghero e Inglerias. Aragonesi, pisani e genovesi si scontrarono per il controllo dell’isola. Questi scontri terminano nel 1297 quando Bonifacio VIII investe Giacomo II d’Aragona come Capo di Governo della Sardegna anche se effettivamente sono nel 1323 gli spagnoli cominceranno ad affluire all’interno dell’isola.

L’arrivo degli Spagnoli non porta all’abbandono dell’isola da parte di aristocratici Pisani e Genovesi che continuano a lavorare all’interno delle realtà economiche e politiche sarde. Il dominio Aragonese porta la nascita di una nuova realtà istituzionale dando vita ad un parlamento locale per la prima volta riunito nel 1355. L’organizzazione del parlamento rispecchia le nuove dinamiche sociali dell’isola: è presenta una piccola rappresentanza urbana provenienti dalle città sarde, ma sono ancora molte le rappresentanze signorili dell’isola, non tutte ricoperte da famiglie spagnole. A partire dal 1387 uno degli antichi giudicati, quello di Arborea, divenne una proprietà affidata a privata portando di fatto a una nuova realtà politica della Sardegna. Con il passare del tempo Infatti molti di quegli stati un tempo indipendenti cominciarono a diventare dei feudi controllati da signori privati.

La nuova realtà istituzionale dell’isola vedeva quindi la presenza della corona spagnola che controlla questi territori grazie alla nomina dei governatori ma da un punto di vista locale possiamo vedere lo scontro politico fra l’autorità dei centri urbani e l’autorità delle famiglie signorili. Nel 1491 durante il primo censimento dell’isola sì riuscì a constatare come il 60% delle comunità e dei villaggi erano infeudati mentre solo il 40% dei territori erano di giurisdizione immediata della corona; questo fa capire quanto effettivamente le famiglie aristocratiche riuscirono a influenzare le realtà politiche dell’isola in così poco tempo. Come già accaduto in Aragona e in Sicilia, anche all’interno dell’isola Sarda si introdusse l’inquisizione spagnola, un tribunale di carattere religioso Ma che agì con obiettivi strettamente politici con l’obiettivo di eliminare qualsiasi nemico della corona tra le famiglie aristocratiche dell’isola.

L’importanza della Sardegna sul piano politico ed economico diminuì con il passare del tempo. Tuttavia l’isola rimase comunque appannaggio della corona spagnola fino al 1720 Quando la Sardegna sarà ceduta alla casata Savoia, momento in cui una casta di Duchi ottenne la dignità regale.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E ICONOGRAFICHE:

FRAMMENTAZIONE DELLA POLONIA: LA SLESIA MEDIOEVALE (XII-XV SECOLO)

Tempo di lettura: 4 minuti

PROTAGONISTI:

  • Regno di Polonia e Ducati successori: Boleslao III Piast e i figli Ladislao, Boleslao, Enrico, Mieszko e Casimiro.
  • Principali duchi di Slesia: Boleslao I l’Alto, Enrico II il Pio, Enrico VI il Buono.

INTRODUZIONE: Una nuova legge di successione

Consumato dalle lotte interne tra principi locali e dalle intermittenti guerre coi ruteni a est, il Sacro romano impero a ovest e le tribù baltiche a nord, il Re di Polonia Boleslao III fu costretto per tutta la sua vita a compiere decisioni politiche difficili, arrivando spesso a stracciare accordi appena siglati. Anche la politica dinastica del polacca si rivelò contraddittoria: se in prime nozze sposò una principessa kievana in funzione anti imperiale, il secondo matrimonio di Boleslao fu con la nobile tedesca Salomea di Berg. Questi matrimoni portarono al Re cinque maschi e nove femmine, che aveva unito in matrimonio con nobili dei regni confinanti. Nel redigere le ultime volontà, vent’anni prima della morte, Boleslao aveva già deciso le modalità della successione: al posto di una guerra dinastica, il regno sarebbe stato diviso tra i figli maschi. A ciascuno spettava un territorio del regno, che si estendeva dai confini esterni fino a una striscia di territorio dai monti Tatra alla Pomerelia, e quindi con l’inclusione della capitale Cracovia, chiamata “Provincia signorile”, indivisibile e non ereditaria, spettante solo al maggiore dei figli del Re. Il detentore della Provincia, infine, avrebbe avuto il potere decisionale su chi avrebbe rivestito le principali cariche laiche e religiose sui possedimenti dei Piasti. Questa legge dinastica era simile a quella applicata nel vicino Rus’ di Kiev, che aveva portato a un lento decentramento del potere centrale.

SVOLGIMENTO: La Slesia nell’età delle frammentazioni

Nel 1138 Boleslao III morì. Ladislao, figlio del Re e della sua prima moglie, ereditò la Slesia e la Provincia signorile; al secondogenito Boleslao spettò la Masovia e la città di Płock; il terzogenito Mieszko si prese la Grande Polonia e la città vescovile di Gniezno; il quartogenito Enrico ottenne la fertile provincia di Sandomierz. A Casimiro, quinto figlio maschio del defunto sovrano, non spettò alcuna terra a causa della giovane età. I notabilati polacchi, spinti da Salomea e dai suoi favori, convinsero i figli minori ad allearsi contro il fratellastro. Ladislao fu espulso dopo pochi anni, e Boleslao IV estese il suo potere in Slesia. In questo clima fratricida, la Polonia perdette la città di Gdańsk e la Pomerelia, finite nelle mani dei principi pomerani al soldo del Sacro romano impero. Ladislao, passato alla storia come “l’Esiliato”, si rifugiò nei territori imperiali, dove morì al servizio del Barbarossa. Anche i suoi figli militarono per l’imperatore tedesco, e quando egli sconfisse in battaglia Boleslao IV nel 1163 diede a questi il dominio sulla regione.

Un duraturo effetto della vittoria del Barbarossa sulla Polonia fu il primo impulso alla colonizzazione di sudditi tedeschi, provenienti soprattutto dalla Vallonia orientale, dall’Assia e dalla Renania. I nuovi arrivati, oltre a non subire i livelli di tassazione dei contadini rimasti in Germania. Boleslao l’Alto, primogenito dell’Esiliato, si dimostrò particolarmente favorevole all’emigrazione di questi nuovi e benestanti coloni che raggiunsero, nel corso dei decenni, le più alte vette ecclesiastiche e mercantili. Secondo lo stesso Duca, le innovazioni tedesche sarebbero state un solido bastione per una futura rivendicazione del dissolto Regno di Polonia. In meno di due secoli divennero la maggioranza della popolazione slesiana nelle città e nelle campagne della Bassa Slesia. Lo stesso Boleslao l’Alto aveva preso in moglie una nobildonna tedesca, e il figlio Enrico I il Barbuto ne seguì l’esempio. Questo processo di colonizzazione, e presto di assimilazione, riceveva agevolazioni dal Diritto di Magdeburgo, una raccolta di leggi che concedeva alla popolazione tedesca numerosi privilegi e regolava il commercio nelle città e nei villaggi.

Già col fratello e con i figli di Boleslao l’Alto, la Slesia cominciò a frammentarsi. La capitale Wrocław divenne col tempo la tedesca Breslau (Breslavia) e perdette la sua centralità, e i piccoli ducati successori presero a farsi guerra tra loro. Negli anni ’30 del XIII secolo Enrico II il Pio, completando l’opera iniziata dal padre Enrico I negli ultimi anni di vita, riuscì a riunire i territori slesiani, fermare le mire imperiali rivolte alla città di Lubusz. Sfruttando le difficoltà interne dei ducati successori al Regno di Polonia, legate alla successione, Enrico II attaccò il Ducato di Sandomierz e della Grande Polonia, e in pochi mesi riuscì a insediare alcuni contingenti slesiani nelle principali città. Il primato di Enrico sugli altri Piasti gli permise di porre la Provincia signorile sotto di lui. Ma il suo tentativo di riunificazione del Paese terminò presto. Nel 1241 i Mongoli invasero la Polonia, ed Enrico fu decapitato nella disastrosa Battaglia di Legnica. Per fortuna dei Piasti superstiti, gli invasori decisero di non proseguire l’avanzata verso il fiume Oder, e di dirigersi verso l’Ungheria e la Moravia. La morte del duca ritrasformò la Slesia in un crogiolo di piccoli staterelli: nel 1288 se ne contavano dieci e alcune città autonome. 

CONCLUSIONE: L’annessione della Slesia alla Boemia

La fine dell’autonomia dei ducati slesiani non tardò. L’ultimo duca di Breslavia, Enrico VI il Buono, rimasto senza eredi maschi e sotto la pressione del patriziato locale, scese a patti col Re boemo Giovanni di Lussemburgo. In base agli accordi, alla morte del Duca, i possedimenti ducali sarebbero spettati alla corona ceca. In cambio di queste concessioni, Enrico ricevette un indennizzo fino al 1335, anno in cui morì. Pian piano gli altri ducati seguirono lo stesso destino, riuscendo a mantenere una discreta autonomia prima da Praga e poi, dopo l’annessione all’Austria, da Vienna. Ufficialmente il Ducato di Slesia fu abolito solo nel XVII secolo, mentre i signori locali continuarono a utilizzare i titoli di duchi fino al XX secolo.

BIBLIOGRAFIA:

  • LUKOWSKI Jerzy, ZAWADZKI Hubert, Polonia. Il paese che rinasce, Beit, Trieste, 2009.
  • Dzieje Śląska czyli historia na pograniczu, Polityka – Pomocnik Historyczny, Numero 7, Varsavia, 2019.