IL PERIODO DEI TORBIDI (1598-1613)– PARTE I

PROTAGONISTI:

  • Zarato russo: zar Fëdor I Rjurikovič, zar Boris I Godunov, zar Fëdor II Godunov, zarevič Dmitrij.
  • Confederazione polaccolituana: Falso Dmitrij I, Sigismondo III Vasa di Polonia, Marina Mniszchówna “Mniszech”.

GLI ULTIMI RJURIKIDI E BORIS GODUNOV:

1591: nel monastero di Uglič, a nord di Mosca, Dmitrij, il più giovane figlio del defunto zar Ivan IV detto “il Terribile”, fu ritrovato morto. Secondo le notizie dell’epoca, Dmitrij stava giocando con altri bambini a svajka, un gioco russo che prevede il lancio dei coltelli per terra, quando fu colpito da un attacco epilettico che l’avrebbe fatto cadere sulle punte dei coltelli. Il processo che ne seguì condusse centinaia di testimoni davanti ai giudici di Mosca. Ma già nelle case dei contadini si parlava di omicidio, e del probabile responsabile: il boiardo Boris Godunov, padre della moglie dell’allora zar Fëdor I, fratello mentalmente invalido dello zarevič assassinato e sovrano senza eredi. Godunov era a capo della reggenza che governava la Russia al posto dello Zar, più concentrato a suonare le campane delle chiese del Cremlino. Con morte di Dmitrij e, nel 1598, con quella di Fëdor, rimasto senza eredi, si estinse la dinastia dei Rjurikidi che, in varie forme, aveva governato gli Stati russi ben prima della cristianizzazione della Russia.

Già nella reggenza, Boris aveva proseguito le politiche commerciali di Ivan IV, il quale era riuscito ad aprire il porto di Arcangelo ai mercanti inglesi, e a recuperare alcuni insediamenti al confine col Regno svedese. In politica interna, proseguì la colonizzazione della Siberia. Al suo fianco ebbe sempre l’appoggio del figlio Fëdor. Inoltre, Boris emanò una legge che impediva il trasferimento dei servi da un padrone all’altro, decisione che portò a un rafforzamento della servitù della gleba. Alla morte dell’ultimo Rjurikide, con l’appoggio del Patriarca moscovita e di altri boiardi, Boris riuscì a farsi riconoscere il titolo di zar e fu incoronato nella Cattedrale della Dormizione di Mosca. Divenuto zar, Boris invitò molti studiosi dall’Europa occidentale, e permise la costruzione delle prime chiese non ortodosse in Russia.

LA CARESTIA E IL “RITORNO” DI DMITRIJ:

Nei primi anni di regno, Boris riuscì a guadagnare la fiducia del popolo e il favore dei boiardi. Ma quando nel 1601 ebbe inizio una carestia, dovuta alle abbondanti piogge che lievitarono il prezzo del pane di cento volte, il popolo cominciò a credere in una punizione divina mandata da Dio contro lo zaricida. Le condizioni di salute di Boris peggiorarono, e si aggravarono ancora di più quando gli giunse voce che Dmitrij era “tornato dai morti”. O meglio, che a morire a Uglič anni prima non era stato lo zarevič, ma un altro Dmitrij. Il vero Dmitrij era riuscito a sfuggire, si era fatto monaco e aveva trovato rifugio presso il re di Polonia Sigismondo III. Il risorto principe si era convertito al Cattolicesimo ed era in procinto di sposarsi con una nobile polacca e reclamare il trono. Boris inviò subito dei messi alla ricerca di informazioni su questo pretendente, dimostrando la sua falsità, e inviò il resoconto a Sigismondo, il quale lo ignorò. Anzi, dichiarò guerra alla Russia per porre Dmitrij sul trono di Russia.

Nei primi mesi del 1605, Dmitrij prese in moglie l’ambiziosa Marina Mniszchówna, figlia di un magnate polacco a cui Dmitrij promise il dominio su alcuni territori russi al confine con la Confederazione. Si diresse, dunque, verso Mosca, dove incontrò, segretamente e a pochi chilometri da Mosca, la madre del Dmitrij ucciso a Uglič. Quando Boris la interrogò la donna pochi giorni dopo, essa negò l’incontro. Intanto nella capitale la situazione precipitò: i contadini assediavano il Cremlino guidati dalla fame, e Boris morì d’attacco cardiaco nell’aprile 1605. Gli succedette il figlio Fëdor II, che regnò pochi mesi prima di perire in una congiura dei boiardi assieme alla madre e alla moglie. Dmitrij, allora, entrò a Mosca e fu riconosciuto ufficialmente dalla sua presunta madre. Incoronato zar, Dmitrij regnò un solo anno, quanto bastò a renderlo inviso alla popolazione e a molti nobili. Lui e Marina si rifiutarono di convertirsi all’ortodossia russa ed esiliarono in Siberia molti nobili. Altri, invece, caduti in disgrazia o costretti a prendere i voti durante lo zarato di Boris furono richiamati indietro. Fra questi il monaco Filarete, nato Fëdor Romanov, nipote di Anastasija, la prima e la più amata moglie di Ivan IV. Nel maggio 1606, i boiardi moscoviti penetrarono nel Cremlino, fecero a pezzi Dmitrij, ne esibirono il cadavere nella Piazza rossa e bruciarono i resti. Marina, al contrario, riuscì a sfuggire. La Russia era nel caos.

BIBLIOGRAFIA:

LA BATTAGLIA DI FORNOVO (6 luglio 1495)

Tempo di lettura stimato: 3 minuti

PROTAGONISTI:

  • Regno di Francia: Carlo VIII, circa 10.600 uomini di cui 1000 morti e feriti;
  • Lega santa antifrancese: Francesco II Gonzaga, tra i 14.500 e i 15.500 uomini, circa 4000 tra morti e feriti.

CONTESTO:

Carlo VIII era in buoni rapporti con le potenze dell’Italia settentrionale, in particolar modo con Milano e Venezia, ed entrambe lo avevano incoraggiato a far prevalere le proprie pretese sul regno di Napoli, allora retto da Alfonso II, e dentro le mire espansionistiche della corona Aragonese. Alla fine dell’agosto 1494 Carlo VIII condusse un enorme esercito, composto da soldati francesi e mercenari svizzeri, accompagnato da un parco d’artiglieria mai visto in Italia. Di fronte a questa potenza di fuoco molti sovrani garantirono il passaggio a Carlo VIII senza combattere, tra cui troviamo Piero il fatuo, mentre altri tentarono di ostacolarlo, invano, come papa Alessandro VI: gli eserciti inviati a bloccare l’avanzata francese furono messi a tacere con facilità. Di fronte alla rapidità e alla violenza della campagna militare del re di Francia molti stati italiani compresero che se Carlo non fosse stato fermato, avrebbero perduto la loro Indipendenza.

Il 31 marzo venne proclamata a Venezia la Lega Santa antifrancese, i firmatari erano la Serenissima Repubblica di Venezia, il Ducato di Milano, il papato, la Spagna, l’Inghilterra e l’impero. Nonostante questo apporto di forze favorevoli alla nuova Lega, solamente le due potenze italiane settentrionali partecipano direttamente al conflitto. L’esercito della Lega, a differenza di quello francese, non era omogeneo e raccoglieva al suo interno molti reparti mercenari europei.

LA BATTAGLIA:

Iniziò nel primo pomeriggio del 6 giugno 1495. Il piano di battaglia del Gonzaga era quello di distrarre i primi due gruppi francesi, attaccare in forze e ai fianchi il gruppo di coda, generando confusione tra i francesi e attaccare infine con le linee di riserva il rimanente dell’esercito francese. Ecco infatti che l’esercito nemico si presentava diviso in tre gruppi durante la marcia: l’avanguardia, il corpo più numeroso, agiva come martello per penetrare nel territorio e garantire un rapido ritorno in patria, il corpo centrale, dove era situato Carlo VIII, e la retroguardia, il corpo più sguarnito aveva al suo interno i vettovagliamenti dell’esercito e i tesori depredati durante la campagna.

Un fattore che sicuramente ha influenzato l’andamento del conflitto è stato lo straripamento inaspettato del fiume Taro che rese più difficoltoso l’attraversamento.
Il conflitto può essere ricostruito attraverso tre momenti cruciali: la carica della cavalleria milanese contro l’avanguardia francese che, ostacolata dallo straripamento del fiume, perse il proprio impeto, permettendo alle truppe francesi di avere facile ragione sugli assaltatori.

La cavalleria del Gonzaga, seguita dalla fanteria, aveva assaltato il centro francese. Grazie all’intervento degli Stradiotti, cavalleria mercenaria albanese al soldo veneziano, le truppe della Lega ebbero inizialmente la meglio ma dopo più di un’ora di combattimento, e a seguito di numerose diserzioni, le forze d’assalto si spostarono verso le retrovie per prendere parte al saccheggio già iniziato. Ecco infatti che la retroguardia francese, sguarnita, venne sopraffatta e, datasi alla fuga, abbandonò in mano nemica i tesori provenienti dalla campagna. La scoperta di un lauto bottino fu un richiamo irresistibile per molti soldati, tra cui gli Stradiotti che, anziché calare sull’avanguardia francese e riaprire lo scontro, si gettarono sulla retroguardia, già vinta, per depredarla. In questo modo il tentativo di intrappolare i diversi tronconi dell’esercito francese non riuscì e il segmento centrale, una volta respinta l’aggressione, poté unirsi all’avanguardia per riprendere la marcia verso nord, lasciandosi alle spalle un nemico esausto e impotente, incapace di sfruttare la schiacciante superiorità numerica.

CONCLUSIONE:

Nonostante le forze a cui i due eserciti potevano ancora attingere, il conflitto terminò verso sera e le salme dei morti furono raccolte e sepolte dai rispettivi eserciti. Fu garantito un lasciapassare per i territori italiani a Carlo VIII che riuscì a ritornare in Francia con parte dell’esercito. È difficile riuscire a riconoscere un vero e proprio vincitore all’interno di questo scontro: ci fu certo una vittoria tattica italiana, a seguito della caduta della retroguardia francese e della fuga da parte del resto dell’esercito nemico, ma d’altra parte va anche riconosciuta una vittoria strategica francese. L’obiettivo di Carlo VIII, cioè quella di rientrare all’interno dei territori francesi senza perdere la totalità dell’esercito, fu raggiunto.


FONTI BIBLIOGRAFICHE E ICONOGRAFICHE:

  • Guicciardini, Storie d’Italia, capitoli 8 e 9, libro II.
  • Pellegrini, Le guerre d’Italia 1494-1559, il Mulino, 2017
  • cronistoria.altervista.org/la-calata-di-carlo-viii-e-il-quadro-politico-italiano/

IL SACCO DI ROMA (1527)

Tempo di lettura: 4 minuti

PROTAGONISTI:

  • Stato Pontificio: Clemente VII
  • Regno di Francia: Francesco I
  • Possedimenti asburgici: Carlo V

CONTESTO:

Nel 1494, quando il sovrano di Francia Carlo VIII decise di far valere i propri diritti sul Regno di Napoli, nessun uomo politico italiano si sarebbe mai immaginato l’inizio di una repentina decadenza politico militare della penisola, oggetto delle contese e degli intrighi di corte delle principali potenze europee, in primis Francia e Spagna.
Il proseguo dei conflitti tra questi due paesi sembrò giungere a una svolta decisiva nel fatidico 1525, anno dell’umiliante sconfitta dell’esercito reale francese a Pavia, difesa da un manipolo di armati spagnoli.
Lo stesso sovrano dell’epoca, Francesco I, subì, a seguito dello scontro, il gravoso peso della prigionia da parte dell’Imperatore Carlo V.

SVOLGIMENTO:

Una volta rimesso in libertà, dopo tredici mesi, Francesco I non solo non assecondò nessuna clausola concordata per il suo rilascio, ma ordì anche un’alleanza con il Papa Clemente VII, Firenze, l’Inghilterra e Venezia, denominandola Lega di Cognac.
In principio quest’alleanza doveva contrastare le azioni militari del Duca di Borbone, abile condottiero al servizio di Carlo, intento ad assediare la città di Milano, occupata nel 1525 da Francesco I prima della disfatta.
Purtroppo la mancanza di coesione tra i coalizzati creò fin da subito delle notevoli difficoltà.
Lo stesso Sovrano francese, ancora scosso dalla recente prigionia, tentennò nell’attuare rapide manovre militari, penalizzando i suoi alleati, primo tra tutti lo stesso Clemente VII, che, come ci narra il Guicciardini nelle sue storie d’Italia, ricevette meno della metà degli aiuti finanziari previsti.
Clemente VII fu perciò costretto ha servirsi delle sole forze degli alleati italici, che assemblarono un esercito al comando del Duca d’Urbino Francesco Maria della Rovere.
I ritardi nell’organizzare ciò, tuttavia, causarono l’inesorabile caduta della città ambrosiana, permettendo agli spagnoli di impadronirsi della Lombardia e di impegnare l’esercito alleato in piccole schermaglie locali.
In una di queste morì il famoso condottiero di ventura Giovanni dalle Bande Nere, padre del futuro Granduca di Toscana Cosimo I de Medici.
In Spagna Carlo V, esacerbato dal discutibile atteggiamento pontificio, incentivò i Colonna, potente famiglia romana, a creare scompiglio nella capitale laziale, costringendo il Papa stesso a trovar rifugio nella roccaforte di Castel sant’Angelo.
La reazione papalina non si fece attendere, erodendo il potere dei Colonna a Roma e distruggendone molte Torri, simboli del loro prestigio che da secoli mantenevano nella città.
A questo punto Carlo V decise di dare un ulteriore lezione a Clemente, e ordinò al Borbone di partire dal nord italia in direzione di Roma.
A Carlo III di Borbone si allegarono anche 16.000 uomini al comando del generale Frundsberg.
Nel Gennaio del 1527 il Borbone, arrivato a Bologna, fu costretto a raziare i territori limitrofi a causa della situazione disperata in cui versavano le sue truppe.
Clemente VII, disperato dal grave deterioramento della situazione provò a corrompere gli armati nemici concedendogli circa 100.000 ducati, i quali vennero però rifiutati dalle furibonde truppe imperiali, desiderose di vendicarsi del pontefice, identificato come la causa principale di tutti i mali della chiesa cristiana.
La diplomazia pontificia decise allora di giungere ad una tregua con il vicereame di Napoli, possedimento spagnolo da circa un paio di decenni, così da indurre il Borbone a concludere le operazioni militari.
Purtroppo per la Lega, neppure questa soluzione ebbe un esito felice, ed il generale spagnolo si prestava a raggiungere e a minacciare la Toscana.
Francesco della Rovere allora, ritenendo più verosimile un’attacco nemico alla città fiorentina, concentrò nella regione la maggior parte delle proprie truppe, lasciando quasi completamente sguarnita l’Urbe.
Il tanto temuto assalto ai domini medicei tuttavia non avvenne, e il 5 maggio 1527 l’armata borbonica giunse in vista della città di Roma, accampandosi vicino a Isola Farnese.
In seguito gli armati occuparono il Giannicolo, arrivando molto vicino al Vaticano.
Immediatamente ci fu il primo attacco, concentratosi tra Porta Cavalleggeri ed il Bastione Santo Spirito.
Tra i difensori delle mura spiccò il comandante Lorenzo Orsini, che riuscì a respingere il primo assalto.
All’alba del 6 maggio ci fu il secondo, a causa del quale le difese cittadine vennero infrante, dando così iniziò al tremendo sacco, che solo quel giorno provocherà immense devastazioni e più di 6000 morti.
In questa carica trovò la morte, a causa di un proiettile d’archibugio, lo stesso Borbone, all’epoca trentasettenne.
Per sfuggire alla furia imperiale, Clemente decise di ritirarsi per la seconda volta nella fortezza di Castel sant’Angelo, da dove potè coordinare la resistenza per alcuni mesi, sperando nell’intervento delle truppe di della Rovere.
Quest’ultimo diede più volte false speranze al Papa, accampandosi fuori le mura di Roma per poi ritirarsi, permettendo così il perpetrarsi della permanenza nella città degli imperiali.
Il suo comportamento probabilmente fu causato da ostilità nei confronti di Clemente per delle controversie dinastiche e territoriali per il controllo del Ducato di Urbino.
Il 6 giugno 1527 Clemente decise di arrendersi, cercando di trovare un accordo finanziario con gli occupanti, ma alla fine scappando di soppiatto nella città umbra di Orvieto.
Il dominio imperiale durò per altri mesi, fino al 1528, quando le ultime truppe rimaste in città vennero scacciate dal generale francese Lautrec.


CONCLUSIONE:


La scioccante caduta di Roma fece presagire la soppressione dello stato Pontificio, cosa che non avvenne grazie soprattutto alla difficile situazione religiosa che doveva affrontare Carlo V in Germania, dove i principi Luterani si stavano rafforzando, minacciando la sua autorità politica e religiosa.
Era quindi necessario mantenere uniti in una forte alleanza, il Papa e l’Imperatore, anche se ben presto si rivelò una vera e propria sudditanza del primo verso il secondo.
Quest’ultimo venne consacrato dal pontefice a imperatore nel 1530 a Bologna, seppur la nomina fosse stata confermata nel decennio precedente, creando così una sorta di continuità legittimale con Carlo Magno. Carlo V dovette tuttavia combattere per molti altri anni contro le forze protestanti, le armate francesi e gli infedeli Ottomani, non raggiungendo mai una decisiva vittoria e una conseguente stabile pace.

FONTI:

  • PELLEGRINI, M., Le guerre d’Italia 1494-1559, Il Mulino Editore, Bologna, 2017.
  • YOUNG, G. F., I Medici, Salani Editore, Milano, 2016.
  • GUICCIARDINI, F., Opere, storia d’Italia, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino.

RIVOLUZIONE AMERICANA

Tempo di lettura stimato: 5 min

CONTESTO:

Al termine della Guerra dei Sette Anni, combattuta tra il 1756 e il 1763, la Gran Bretagna emerse come la più grande potenza mondiale. I suoi possedimenti europei non furono aumentati significativamente, ma i suoi domini coloniali invece contavano zone strategiche come la penisola indiana o come tutta l’area coloniale dell’America nord-orientale. Dato il vasto Impero da dominare, era necessario infatti aumentare le entrate economiche per soddisfare le esigenze dell’amministrazione e dell’esercito. Il governo britannico per far fronte all’aumento delle spese derivanti dalle conquiste territoriali, favorì un aumento della pressione fiscale sui contribuenti delle colonie nordamericane, quest’area infatti era in piena espansione demografica ed economica.

NUOVA POLITICA FISCALE:

La nuova politica fiscale per le colonie britanniche venne messa in atto con due norme distintive: il Revenue Act del 1764 e lo Stamp Act del 1765. La prima norma fu volta a limitare il contrabbando messo in atto da gruppi di coloni, la seconda invece, impose che su ogni documento ufficiale fosse apposto un bollo, da acquistare in apposite rivendite autorizzate. In realtà gli introiti fiscali derivanti da queste nuove tasse non uscivano dal territorio delle colonie perché servivano per il pagamento dell’ esercito stanziato nelle colonie e per stipendiare i funzionari statali lì dislocati.

Questo aspetto particolare della nuova politica fiscale però non bastò a convincere i contribuenti nordamericani, i quali cominciarono a protestare attraverso articoli sui giornali, manifestazioni o interventi esplicite nei parlamenti locali. L’argomento più forte che venne adottato contro la nuova politica fiscale fu che un organo legislativo come la Camera dei Comuni non poteva approvare nuove tasse a danno di comunità territoriale alle quali non era stato riconosciuto il diritto di mandarvi rappresentanti che ne potessero difendere gli interessi: nel parlamento britannico infatti non erano ammessi i politici provenienti dalle zone coloniali.

Di fronte al malumore delle colonie il governo di Londra revocò lo Stamp Act nel 1766 tuttavia non diede la possibilità alle colonie di far valere il proprio principio di rappresentanza. Nel 1767 una legge del parlamento attribuì alla East India Company(Eic)  il monopolio esclusivo della vendita del Tè importato in Nord America e questo portò ha numerosi problemi: colpì direttamente gli interessi dei commercianti nordamericani, colpì gli interessi dei Contrabbandieri che dovevano i loro introiti allo scambio illegale di tali merci e sembrò la prova manifesta che il governo e il Parlamento britannico non avevano a cuore gli interessi delle colonie nordamericane, ma preferivano sostenere gli interessi dei ‘poteri forti’ radicati in Gran Bretagna. Ecco infatti che molti parlamentari britannici possedevano ingenti pacchetti di azioni della Eic.

 Il 16 dicembre del 1773 a Boston un gruppo di coloni, per protesta, si introdusse su alcune navi della compagnia e buttò in mare le balle che contenevano il tè. Questo evento sarà ricordato come il Boston Tee Party. Fu un gesto di protesta plateale e diretta che provò una durissima reazione da parte del governo britannico.

I leader dei ribelli risposero convocando per l’anno seguente un congresso dei rappresentanti delle colonie per fare il punto sulla situazione e stabilire una linea comune di fronte al governo di Londra. Tredici colonie mandarono i loro delegati al congresso che si tenne a Filadelfia nel settembre del 1774. Le loro posizioni erano molto varie: si potevano trovare dai lealisti, determinati a mantenere la fedeltà al sovrano e alla madrepatria, agli indipendentisti radicali, inclini a rompere al più presto con l’autorità di Londra.

 Il congresso decise comunque di chiedere formalmente al governo britannico di ritirare le norme repressive varate nei mesi precedenti e lo sollecitò a manifestare una qualche disponibilità per una soluzione di compromesso.

L’INIZIO DEL CONFLITTO:

All’inizio del 1775 in comandante dell’esercito britannico ricevettero l’ordine di arrestare i leader che guidano la ribellione, portando ai primi incontri seri tra l’esercito britannico e le milizie irregolari dei coloni.

Un secondo congresso dei delegati delle colonie, riunitosi sempre a Filadelfia Il 10 maggio 1775, prese atto del precipitare della crisi e decise di pubblicare i motivi per i quali colonie stavano prendendo le armi contro le forze armate britanniche tramite una dichiarazione.

Gli scontri con l’esercito britannico si moltiplicarono, mentre il congresso decise di battere autonomamente moneta e di organizzare un vero e proprio esercito, affidato al comando di Giorgio Washington, un proprietario terriero della Virginia.

 All’inizio dell’estate i delegati al Congresso di Filadelfia redassero una dichiarazione di indipendenza che venne approvato il 2 luglio e resa pubblica il 4 luglio 1776.

L’Indipendenza venne salutata con entusiasmo da una parte degli abitanti delle colonie ma ci fu un buon numero di coloni che per ragioni varie assunsero una posizione di equidistanza tra il Governo e Ribelli. E inoltre ci fu anche una parte minoritaria di realistiche non volle saperne di tradire il proprio re e aderire alle ragioni dell’ Indipendenza. Il governo britannico inviò in America una flotta di 13000 marinai e un esercito di 32000 uomini, in larga parte mercenari. Era un esercito addestrato a combattere una guerra regolare e che, nei calcoli dei comandanti, non avrebbe dovuto combattere troppo a lungo: oltretutto l’esercito poteva contare anche sull’appoggio dei coloni lealisti. All’inizio del conflitto le cose sembrarono mettersi molto bene per i soldati inglesi, alla lunga, però, i colonialisti riusciranno a svoltare il conflitto.

George Washington decise di evitare per quanto possibile battaglie campali, attaccando sistematicamente di sorpresa le truppe britanniche. È una tattica che si rivelò capace di fiaccare l’esercito nemico, puntando al logoramento.

È Importante sottolineare che se da una parte troviamo dei soldati che combattono per denaro, dall’altra ci sono soldati che combattono per le loro famiglie, per le loro proprietà e per tutto ciò che identificano con la loro Libertà. Questo conflitto assunse anche i caratteri di una guerra civile, che contrappose i coloni ribelli a quelli lealisti.

A rendere più solida la posizione delle colonie indipendentiste fu l’intervento delle altre potenze europee nemiche della Gran Bretagna: Francia, Spagna e Olanda che garantirono nuovi prestiti, si offrono come partner commerciali e  presero attivamente parte al conflitto.

La Francia nel 1678 riconosce ufficialmente l’indipendenza degli Stati Uniti.

Nel corso del 1780 la guerra volse definitivamente a favore delle truppe nordamericane; portando alla battaglia decisiva di Yorktown nel 1781.

Il governo britannico avviò trattative con i delegati delle ex-colonie, che portarono alla firma della Pace, siglata a Parigi il 3 settembre 1783: la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza delle colonie costituitesi in Stati Uniti, mentre restituì alla Spagna la Florida, che aveva occupato nel 1863.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E ICONOGRAFICHE:

ASCESA E DECLINO DI OLIVER CROMWELL (1644-1658)

tempo di lettura: 4 minuti

Sotto la dinastia Stuart la corona Britannica vide un notevole indebolimento dovuto al generale malcontento cresciuto negli ultimi anni del governo di Giacomo I e soprattutto con la successione del figlio Carlo I. Quest’ultima era un uomo colto e non privo di intelligenza, ma di carattere debole: era infatti dominato dai favoriti, si vide addirittura negare dal Parlamento, alla sua Ascesa al trono, la tradizionale concessione vitalizia della facoltà di riscuotere i dazi doganali sulle importazioni di vino e di altri articoli. Il fallimento di una spedizione navale da lui organizzata per soccorrere gli ugonotti in Francia portarono a una ulteriore svalutazione della sua figura.

Nel 1628 il Parlamento propose al re un documento denominata petizione di diritto, che limitava notevolmente i poteri del sovrano a favore della realtà parlamentare. Questo diede vita a una serie di scontri tra Parlamento e corona che portarono allo scioglimento delle camere parlamentari. Per oltre un decennio Carlo I detiene il potere, coadiuvato dal governo tutto di nomina regia portando a un forte accentramento del potere. A causa di problemi politico-sociali il Re fu costretto a richiamare per ben due volte il parlamento: nell’aprile 1640 e dal novembre 1640 fino al 1653.

A seguito del fallimento nel 1641 del tentativo di reprimere un’insurrezione in Irlanda, l’opposizione parlamentare cominciò a screditare la figura del sovrano che, nel tentativo di arrestare i capi dell’opposizione, portò invece allo spostamento della sede parlamentare e all’apertura della guerra civile.
La guerra civile cominciò nell’estate del 1642 e se in non primo momento sembrava volgere a favore del sovrano, che poteva contare su una cavalleria composta da numerosi nobili, i progressi dell’ostilità faranno pendere la bilancia dalla parte del parlamento che poteva contare sul sostegno finanziario di Londra e sulla maggiore capacità contributiva delle contee Sud-orientali, oltre che sull’alleanza con gli scozzesi.

Il primo importante successo venne ottenuto nel 1644 nel nord, a Marston Moore, grazie alla guida di Oliver Cromwell, un gentiluomo di campagna dotato di un grande talento militare e organizzativo nonché forte credente calvinista.

Fu lo stesso Cromwell a dare vita al New Model Army, un esercito caratterizzato da una forte disciplina ferrea e alla precedenza data al merito rispetto alla nascita e animato dalla condizione dei soldati di combattere per una causa giusta: le schiaccianti vittorie ottenute a Naseby e a Langport pongono praticamente fine alla guerra civile. L’anno successivo Carlo I sì arrese agli scozzesi. All’interno del parlamento tuttavia erano divergenti le vedute sull’assetto politico e religioso da dare all’Inghilterra. Questo darà la possibilità nel 1647 a Carlo di fuggire e tentare di riaprire il conflitto civile, questo tentativo tuttavia fallirà e In Inghilterra il Parlamento venne epurato con la forza degli elementi più moderati e nel 1648 i pochi rimasti diedero vita a un’alta commissione di giustizia per processare il re, che viene condannato a morte e giustiziato nel gennaio 1649.
Esecuzione del re fu seguita dalla creazione di un consiglio di stato che prendeva il posto del consiglio privato della corona, dalla soppressione della Camera dei Lord e dalla proclamazione della Repubblica unita di Inghilterra, Scozia e Irlanda: il Commonwealth.

Nel frattempo il figlio di Carlo I, Carlo II si era rifugiato nei Paesi Bassi.
Uno dei principali capi del nuovo governo inglese fu proprio Cromwell che guidò tra il 1649 e il 1650 una serie di campagne militari in Irlanda e in Scozia con l’obiettivo di eliminare qualsiasi tipo di opposizione. La nuova potenza militare inglese, posta al servizio di un espressionismo aggressivo che agli imperativi religiosi congiungeva quelli religiosi non tardo a rivolgersi anche in altre direzioni. Nel 1651 venne varato l’atto di navigazione, che riservava alla madrepatria il commercio con le colonie nordamericane e ammetteva nei porti inglesi solo navi britanniche. Era un colpo diretto contro gli olandesi, che esercitavano su larga scala il commercio di intermediazione; Infatti scoppiò subito la prima delle tre guerre navali anglo-olandesi.

Alcuni anni dopo nel 1655, l’Inghilterra entrò in guerra contro la Spagna Già duramente provata dal conflitto con la Francia, e le strappò l’isola di Giamaica, destinata a divenire ben presto il fulcro della tratta in continentale degli schiavi.
Nel 1653 venne sciolto quello che restava del Parlamento e venne creata un’assemblea di 144 membri, tutti scelti tra i capi dell’esercito che durò solo 5 mesi a causa dei contrasti interni. Alla fine di quello stesso anno, una carta costituzionale proclamò Oliver Cromwell Lord protettore del Commonwealth. Fu quest’ultimo a scegliere poi i membri del Consiglio di Stato. Il potere militare si identificava così strettamente col potere politico, e scarso successo ebbero i nuovi tentativi per affiancare all’esecutivo un Parlamento che fosse al tempo stesso docile ai suoi voleri in qualche modo rappresentativo della nazione. Con il protettorato Ebbe fine la relativa libertà di cui aveva finora goduto la stampa e anche il dissenso religioso cominciò a essere perseguitato. L’esercito venne depurato degli elementi più radicali e tutto il territorio inglese venne suddiviso in 11 distretti, ciascuno dei quali retto da un maggior generale. In questo periodo Inoltre aumentarono notevolmente le tasse per il sostentamento dell’Esercito e della marina, non bastavano Infatti i proventi delle confische delle vendite dei beni dei Vescovi, della Corona e dei realisti. Alla morte di Cromwell avvenuta nel 1658 venne designato a succedergli il figlio Richard, che non aveva però l’autorità del padre e si dimostra incapace di porre un freno alle forze centrifughe che spingevano il paese verso l’anarchia. Dopo l’abdicazione di Richard, l’unica soluzione possibile apparve il richiamo di Carlo II Stuart, che con la dichiarazione di Breda si impegnò a governare con il Parlamento, a concedere una larga amnistia e a tollerare una certa libertà religiosa.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E ICONOGRAFICHE:

LA BATTAGLIA DI PAVIA E L’INCORONAZIONE DI CARLO V A BOLOGNA (1525 e 1530)

Lettura articolo: 4 minuti

PROTAGONISTI:

  • Sacro Romano Impero e alleati: Carlo V d’Asburgo, Antonio de Levya, Georg von Frunsberg, Ferdinando Gonzaga di Mantova, cancelliere Mercurino di Gattinara, ammiraglio Andrea Doria (dal 1527).
  • Regno di Francia: Francesco I di Valois, ammiraglio Andrea Doria (fino al 1527).
  • Stato della Chiesa: Papa Clemente VII Medici, cardinale Alessandro Farnese.

PARTE I: le ambizioni di Carlo V

Nel 1519, il diciannovenne Carlo d’Asburgo fu designato imperatore del Sacro Romano impero dal collegio dei sette Principi elettori; i ministri e i banchieri asburgici riuscirono, infatti, a corrompere i Principi con più di ottocentomila fiorini, impedendo l’ascesa al trono imperiale dei sovrani inglesi e francesi, nonché dell’allora pontefice Leone X. L’anno successivo si svolse la cerimonia di incoronazione a Re dei Romani, ovvero dei Germanici, alla Cattedrale Palatina di Aquisgrana. Benché re dei Romani, a Carlo mancava ancora il riconoscimento al titolo di “re d’Italia”, con relative insegne e pretese, che poteva avvenire tramite il riconoscimento del Papa e l’incoronazione, per sua mano, a Roma. E questo non avveniva dal 1452.

La salita al trono portò Carlo V a essere il più potente sovrano europeo: l’eredità spagnola, con i suoi prodromi del futuro impero coloniale nelle Americhe e in Asia, l’eredità borgognona e l’eredità imperiale portarono il giovane sovrano a interessarsi a una politica sia su scala europea, sia su scala mondiale. Le ambizioni asburgiche trovarono subito nemici nel re di Francia, Francesco I di Valois, che reclamava il Ducato di Milano per motivi dinastici e quale compensazione dell’elezione di Carlo al trono del Sacro Romano Impero, e del pontefice Clemente VII, salito al soglio petrino nel 1523. Già nell’autunno dell’anno dopo, Francesco riuscì con trentamila uomini a entrare a Milano, grazie all’appoggio di mercenari svizzeri e italiani.

PARTE II: la Battaglia di Pavia

Nell’ottobre 1524 Francesco si diresse a Pavia, dove lo attendevano i seimila soldati dello spagnolo Antonio de Leyva, e circondò la città con la sua sofisticata ma pesante artiglieria. Le piogge autunnali resero il terreno una fanghiglia, ma il Re di Francia proseguì l’assedio, mentre de Leyva dava l’ordine di confiscare i beni ecclesiastici e pagare i soldati. L’assedio diede tempo all’esercito imperiale di consolidarsi con altre truppe napoletane e seimila lanzichenecchi, questi ultimi capitanati dallo svevo Georg von Frundsberg. Ridotto alla fame, gli imperiali erano costretti a mangiare un solo pezzo di pane al giorno. Nel febbraio del 1525 entrambi gli schieramenti contavano circa venticinquemila uomini: ventimila fanti e duemila cavalieri imperiali contro undicimila fanti, quattromila cavalieri e diecimila riserve francesi.

Nella notte del 23 febbraio, due manipoli imperiali aprirono una breccia nelle mura di Mirabello, frazione nel settentrione di Pavia. L’ala destra francese lanciò un attacco sulla retroguardia imperiale, e Francesco I tentò di sferrare la carica decisiva. Così avvenne, sennonché l’artiglieria francese fu costretta a smettere di sparare per non colpire le truppe amiche. Questo permise alla cavalleria e agli archibugi imperiali di contrattaccare. Frunberg ricompose la retroguardia, mentre Leyva diresse le proprie truppe alle porte della città e impedì ai rinforzi nemici di entrare. Alle poche ore dall’alba, le truppe francesi compresero che la battaglia e la città erano perdute. Numerosi sbandati si gettarono nel fiume Ticino in cerca della fuga. Anche Francesco I tentò di fuggire, ma un archibugio colpì il suo cavallo. La carcassa dell’animale impedì al Re di lasciare il campo, e tre soldati spagnoli lo catturarono con facilità. Le perdite francesi, tra morti e annegati, ammontarono a quasi quindicimila.

Per ordine di Carlo V, Francesco I fu portato a Madrid, dove rimase nove mesi. Spesso il Re di Francia riceveva visite dall’Imperatore dei Romani, il quali riuscì a strappargli un trattato: in cambio del rilascio, Francesco si impegnava a rinunciare alle sue pretese in Borgogna, nelle Fiandre e in Italia. Inoltre, avrebbe ritirato le truppe dalla Liguria, cosa che avvenne solo nel 1528. L’anno prima i lanzichenecchi di von Frunberg avevano saccheggiato Roma, e costretto Clemente VII, colpevole agli occhi dell’Imperatore di atteggiamenti filofrancesi, a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo. Solo nel 1529, dopo i negoziati di Barcellona, l’Imperatore e il Papa si riconciliarono. Carlo V ottenne da Clemente VII la promessa dell’incoronazione a re d’Italia, cerimonia che non si sarebbe tenuta a Roma, ancora provata dal saccheggio, bensì a Bologna, città, comunque, appartenente allo Stato pontificio.

PARTE III: l’incoronazione di Carlo V a Re d’Italia

“Dio, il creatore, vi ha concesso la grazia di elevare la vostra dignità sopra tutti i re e i principi della cristianità, di convertirvi nel più grande imperatore e re dalla divisione dell’impero di Carlo Magno, e vi ha indicato il cammino verso la giusta monarchia universale al fine di unire l’orbe intero sotto un unico pastore”. Con queste parole Mercurino di Gattinara, consigliere di Carlo V, consigliava il suo sovrano. La politica estera imperiale non era figlia di schemi politici, ma della volontà divina. L’incoronazione per mano papale a Bologna era uno dei tasselli che avrebbe permesso a Carlo V di farsi riconoscere quale erede dell’Impero carolingio. Per l’occasione, in città furono eretti archi di trionfo dedicati a Nettuno e a Bacco, con le effigi degli imperatori romani fino ad arrivare a Carlo Magno.

Il 22 febbraio Clemente VII incoronò Carlo d’Asburgo re d’Italia, ponendogli sul capo la corona ferrea longobarda. Invece, il 26 febbraio, giorno del trentesimo compleanno di Carlo, nella Chiesa di San Petronio  l’Imperatore ricevette le investitura canonica di San Pietro, la spada, che gli conferiva il diritto di muovere guerra in difesa del Cattolicesimo. Il cardinale Alessandro Farnese, il futuro Paolo III, lo unse con l’olio santo. Infine, Clemente VII gli cinse la testa col diadema imperiale. Conclusa la cerimonia, l’Imperatore e il Pontefice sfilarono in una lunga processione per la città, seguiti dai principi italiani e ufficiali imperiali. Lasciata Bologna, Carlo V si diresse ad Augusta, dove emanò l’omonima Dieta riguardanti le divisioni tra protestanti e cattolici.     

BIBLIOGRAFIA:

  • CAPRA Carlo, Storia moderna 1492-1848, Mondadori, Milano, 2016.
  • PALOS Joan Lluís, L’incoronazione di Carlo V, Rivista Storica (National Geographic), Anno 5, Numero 60, febbraio 2014, RBA Italia, Milano.
  • SEGURA Germán, Pavia: il trionfo di Carlo V, Rivista Storica (National Geographic), Speciale Storica: Le grandi battaglie dell’età moderna, Anno 1, Numero 3, 27 ottobre 2020, RBA Italia, Milano.

LA CONQUISTA RUSSA DELLA CRIMEA (1768-83)

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PROTAGONISTI:

  • Impero russo: Caterina II, Aleksej Grigor’evič Orlov, Aleksandr Vasil’evič Suvorov, Grigorij Aleksandrovič Potëmkin.
  • Impero ottomano: Mustafa III, Abdül Hamid I, Cezayirli Gazi Hasan Paşa.
  • Khanato di Crimea.

PARTE I: Russi e Ottomani nel Mar Nero

Col Trattato di Costantinopoli del 1700, lo Zarato russo di Pietro I riuscì a ottenere un porto caldo sul Mar Nero con la città di Azov e dintorni. Questo francobollo di terra fu teatro delle guerre russo-ottomane, e non passava decennio dove la città e dintorni non venivano trasferiti da impero a impero, finché nel 1739 passò definitivamente alla Russia, previa la distruzione della fortezza e degli edifici amministrativi, e conseguente smilitarizzazione. La città fu lasciata in rovina, e i successivi sovrani si disinteressarono alle politiche anti-ottomane. Azov era, infatti, circondata dal centenario Khanato di Crimea, vassallo ottomano da sempre fonte di prodotti agricoli, schiavi, soldati e concubine.

Fu la salita al trono di Caterina II nel 1762 a modificare la politica russa nel Mar Nero. Amante degli autori classici e della storia antica, Caterina utilizzò le sue passioni per i suoi scopi geopolitici. Dopo aver posto al trono della Confederazione polacco-lituana il suo favorito Stanislao Augusto Poniatowski, assicurando così il confine occidentale e contravvenendo agli accordi del 1739, che impedivano alla Russia di intromettersi negli affari polacchi, il Sultano Mustafa III le dichiarò guerra nel 1768. 

PARTE II: la Spedizione Orlov, il Progetto greco, le battaglie

Caterina ordinò all’ammiraglio Aleksej Orlov, fratello del favorito Grigorij, di guidare la Flotta baltica da San Pietroburgo alla Grecia, e di seminare astio tra le popolazioni ortodosse e fomentare una serie di rivolte che avrebbero destabilizzato la Sublime Porta. Sbarcato in Epiro e nel Peloponneso nel 1770, Orlov si rivolse ai locali militari greci in cerca di rinforzi, ma l’inerzia e la cupidigia dei peloponnesiaci frenarono le aspirazioni dell’Ammiraglio. Poche furono le azioni greco-russe, e la mancanza di coordinamento arenò le aspettative. Per domare le rivolte, il governatore ottomano chiese aiuto a soldati albanesi, mentre i russi e i greci rivoltosi presero la via del mare. Successi di Orlov furono, invece, la conquista di Lemno e la Battaglia navale di Çeşme: la superiorità numerica ottomana non resistette alle più moderne imbarcazioni russe. Fu la più grave sconfitta marittima ottomani dai tempi di Lepanto (1571). Unica nota di merito ottomana fu l’azione del secondo ufficiale circasso Cezayirli Gazi Hasan Paşa, che riuscì a salvare molti uomini, trovando rifugio presso un prete ortodosso del luogo. Più tardi promosso al grado di ammiraglio, Hasan Paşa si impegnerà alla modernizzazione della flotta ottomana. Anche nella Georgia ottomana, governata da principi vassalli della Sublime Porta, la situazione peggiorò. Con la vittoria nella Battaglia di Aspindza (1770), i principi georgiani ottennero una maggiore autonomia, aprendo le porte a futuri accordi coi russi.

È nell’impresa di Orlov e nelle rivolte in Georgia che si inserì il “Progetto greco”, tentativo russo di espandere la propria egemonia sui Balcani cristiani. In quest’ottica, la Russia si impegnava a strappare agli Ottomani i possedimenti crimeiani, e il Caucaso fino ad annettere l’antica Trebisonda. Non a caso Caterina diede ai nipoti i nomi di Alessandro e Costantino. Al primo sarebbe spettato l’Impero russo, come avvenne nel 1801, mentre al secondo un mai realizzato Regno neobizantino che avrebbe compreso la Grecia orientale, le isole egee settentrionali, la Macedonia, la Bulgaria e Costantinopoli. Anche la Repubblica di Venezia avrebbe giovato, riannettendo il Peloponneso, Creta e Cipro, ed espandendosi in Albania. Un Regno unito di Valacchia e Moldavia avrebbe dato la corona a un altro favorito della regina, Grigorij Potëmkin.       

Nel febbraio 1774 Mustafa III morì e il figlio Abdül Hamid gli succedette. Di indole pacifica e religioso, e contro le prepotenze del corpo dei giannizzeri ormai preda di nepotismi, il nuovo Sultano cercò di scendere a trattative coi Russi. Nel giugno dello stesso anno il generale Aleksandr Suvorov inflisse un’altra sconfitta agli Ottomani nel paesino bulgaro di Kozludža (oggi Suvorovo, in onore del vincitore). La cavalleria russa catturò l’artiglieria ottomana, e l’esercito del Sultano fu costretto a ritirasi nella Bulgaria meridionale. E quando in Egitto e in Siria scoppiarono nuove ribellioni, Abdül Hamid ottenne la desiderata pace.

PARTE III: la pace e le conseguenze

Il 21 luglio 1774 a Küçük Kaynarca (oggi Kajnardža in Bulgaria) i due imperi firmarono la pace. I ventotto articoli del trattato furono redatti in russo, in turco ottomano e in italiano, questo utilizzato come lingua franca. In caso di incomprensioni fra i tre testi, quello in italiano sopravanzava. Con questo trattato, la Russia riceveva un indennità di guerra, otteneva i territori a nord del Khanato di Crimea, a cui fu concessa l’indipendenza dalla Sublime Porta. Ma nel 1783 Caterina annetté il Khanato, troppo debole per difendersi, nonostante le proteste ottomane. Gli insediamenti a nord della Crimea vennero chiamati Nuova Russia (Novorossija), e gli insediamenti dei coloni russi nei territori del Khanato stravolsero la demografia del luogo. Molti Tatari di Crimea lasciarono la penisola o divennero una minoranza. Altri si convertirono al Cristianesimo ortodosso e si russificarono. Caterina ordinò al favorito Grigorij Potëmkin di fondare nuove città, che dovevano richiamare agli antichi insediamenti greci o alla figura dell’Imperatrice. Sorsero le città di Odessa, Cherson e Ekaterinoslav, mentre i principali insediamenti tatari esistenti cambiarono nome, come nel caso di Simferopoli e Sebastopoli. Nel XIX secolo, queste città sarebbero divenute le mete estive preferite dell’aristocrazia russa, arricchendosi di ville e biblioteche. Molti autori russi trovarono in questi luoghi la loro ispirazione.

BIBLIOGRAFIA:

  • ARTËMOV Vladislav Vladimirovič, Velikie Imena Rossii, OlmaMediaGrupp, Mosca, 2015;
  • BUSHKOVITCH Paul, Breve storia della Russia,Einaudi, Segrate, 2013;
  • MANTRAN ROBERT, Storia dell’Impero Ottomano, Lecce, Argo, 1999.

LA DIFFUSIONE DELLA RELIGIONE PROTESTANTE

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Il 31 ottobre 1517 il teologo Martin Lutero, con la pubblicazione delle 95 tesi, si discostò dalla classica visione tradizionale della religione cattolica tramite una forte critica verso la teoria delle indulgenze e verso la figura del sommo pontefice. In questa sua opera Lutero esprimeva le convinzioni da lui elaborate nel corso della giovinezza. Egli dedicò gran parte degli studi alle Sacre Scritture e, spinto da una profonda crisi interiore, raggiunse quella dottrina denominata “Giustificazione per Fede”.

Secondo Lutero, infatti, la natura umana è intrinsecamente malvagia, corrotta dal Peccato originale e nulla può fare da sé. Il giusto avrà il bene per amor di Dio e del prossimo, ma ciò sarà una semplice conseguenza e non la causa del suo stato di grazia. Per la Chiesa, invece, la grazia era indispensabile, ma l’uomo poteva meritarsela con le buone opere e, così, contribuire alla propria salvezza. Si delinea fin da subito un netto distanziamento dalla Chiesa Cattolica che si rafforzerà ulteriormente quando Lutero propose una serie di riforme mirate all’abbattimento degli ordini ecclesiastici e monastici, favorendo una lettura libera da interpretazioni delle Sacre Scritture.

Per Lutero non era necessaria la presenza di una classe sociale, come il clero, che interpretasse e spiegasse le Sacre Scritture in quanto queste dovevano essere lette e studiate in maniera indipendente e libera. Oltre a riconoscere quindi il clero superfluo, Lutero riconosce due soli sacramenti: il battesimo, come cerimonia di iniziazione alla vita cristiana, e l’Eucaristia, che vede la presenza reale del Cristo nel pane nel vino offerto ai fedeli. Questo porterà una rottura totale con Roma, in un contesto politico-sociale molto particolare.

Le condizioni economiche e sociali in cui versava la Germania hanno permesso la diffusione delle tesi luterane che riscontrarono fin da subito un’amplissima popolarità. Futili furono i tentativi di riappacificazione fra le due visioni promosse dalla Chiesa cattolica e dalla nuova chiesa luterana; spinti anche da forti interessi politici, i principi tedeschi si raggruppano in due grandi fazioni caratterizzate dall’identità religiosa. Queste fazioni si scontrarono non solo sul piano teologico, ma anche sul piano militare.

Dopo numerosi anni di scontri nel 1555 con la pace di Augusta, l’imperatore Carlo V pose fine a queste lotte di religione, col riconoscimento della duplice religione presente all’interno dei territori tedeschi sia quella Cattolica che quella luterana. Se nelle città imperiali era ammessa la loro convivenza, i principi territoriali  potevano imporre il proprio credo ai sudditi, i quali non avevano altra scelta se non convertirsi o emigrare. La Pace di Augusta sanciva così al tempo stesso la scissione religiosa della Germania e un grave indebolimento delle autorità Imperiale.

Nella realtà Europea si verificarono altre esperienze molto simili a quelle di Lutero: tra il 1523 e il 1525 a Zurigo, Ulrich Zwingli promosse una serie di riforme che convinsero  il consiglio cittadino ad abolire la messa, a riformare la liturgia e imporre la Bibbia come unica fonte di autorità in campo religioso. Anche le immagini sacre vennero distrutte quali veicoli di idolatria. La riforma si estese rapidamente in tutta quanta la Svizzera ma tuttavia questa nuova dottrina conosciuta come la dottrina zwingliana non trovò l’appoggio dei luterani tedeschi. Questo era dovuto al riconoscimento dell’eucarestia come Sacramento. Se Lutero credeva nella presenza reale di Cristo nel pane nel vino offerte fedeli, Zwingli la interpretava come una semplice cerimonia commemorativa: su questo problema teologico gli zwlinghiani si trovarono isolati e nel 1531 un esercito cattolico mosse contro Zurigo, e a Kappel i protestanti ebbero la peggio. Lo stesso Zwingli morì in battaglia. Ecco che la sua dottrina e le sue ideologie, seppur poi riprese e accolte nel calvinismo, si limitarono ai territori svizzeri.

Il movimento di riforma delle città svizzere sarà poi accolta nel calvinismo. Una nuova dottrina nata grazie al funzionario della Curia Vescovile Giovanni Calvino. Molti punti essenziali della dottrina luterana sono condivisi nel calvinismo, a cominciare dall’autorità esclusiva della Sacra scrittura ed alla giustificazione per Fede. Il Dio di Calvino tuttavia è più il dio del vecchio che del Nuovo Testamento: un Dio Maestoso, inaccessibile, che fin da principio ha predestinato ogni singolo uomo alla salvezza o alla Dannazione eterna, secondo criteri di giustizia per noi incomprensibili. È presente  in Calvino la teoria della predestinazione. Anche nel calvinismo il concetto di vocazione, già presente in Lutero, era applicato a qualunque professione è mestiere e non, come nel cattolicesimo, alle carriere ecclesiastiche.

Un’importante differenza tra luteranesimo e calvinismo si pone nella concezione del rapporto tra la Chiesa e lo Stato. Rispetto alla chiesa invisibile composta dall’insieme degli eletti di tutta l’umanità, assume un’importanza crescente nel pensiero di Calvino la chiesa visibile, la congregazione dei fedeli legati dalla comune pratica del culto e dalla comune appartenenza ad uno stato o una città. A Ginevra nasce un’ Accademia per la formazione dei pastori e questo contribuì a fare nella città stessa il centro di irradiamento di una fede intransigente ed eroica, pronta al martirio e alla ribellione per affermare la gloria del dio sovrano e instaurare il governo dei Santi.

Le principali aree europei di diffusione del calvinismo furono la Francia, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e l’Europa Orientale. Sia in Inghilterra, sia nei Paesi scandinavi in mutamenti. In campo religioso sono inscindibilmente legati al processo di costruzione di un unità nazionale e una forte potere monarchico.

Nel 1534 con l’Atto di supremazia, il re inglese Enrico VIII Tudor, si dichiara capo supremo della Chiesa d’Inghilterra portando ad una rottura di tutti i vincoli di dipendenza da Roma. La dottrina e la struttura gerarchica della chiesa non furono in un primo momento toccato. Tuttavia, gli ordini regolari furono sciolti e i loro ingenti beni fondiari incamerate dalla corona, che li mise in vendita favorendo così la formazione di una nuova classe sociale di medi e grandi proprietari terrieri. Dal punto di vista religioso la vera riforma ebbe luogo durante il breve regno di Edoardo VI. Invano Maria I Tudor si sforzò di riportare l’Inghilterra alla fede cattolica con numerose condanne a morte inflitte agli anglicani. Dopo la sua morte l’Inghilterra assumerà la forma definitiva di chiesa anglicana, separata da Roma e soggetta all’autorità del sovrano.

Anche nel Regno di Scozia alla fine degli anni cinquanta il calvinismo divenne religione dominante. La Chiesa presbiteriana scozzese, a differenza di quella anglicana, si caratterizzerà per una struttura assembleare a più livelli e per l’assenza di un clero organizzato gerarchicamente.

Nei paesi scandinavi, invece, il luteranesimo diventa religione di Stato, grazie agli intensi contatti culturali e commerciali con il mondo tedesco. Nel 1544 la Svezia divenne ufficialmente un paese luterano. Tali deliberazioni si applicano anche alla Finlandia, sottoposto alla sovranità svedese. In Danimarca la trasformazione degli ordinamenti ecclesiastici furono opera del re Cristiano III che nel 1536 proclamò il luteranesimo unica religione di Stato. Contemporaneamente la riforma fu introdotta anche in Norvegia e in Islanda, suddite della corona danese.

FONTI BIBLIOGRAFICHE E ICONOGRAFICHE:

LA COLONIZZAZIONE SPAGNOLA DEL NUOVO MONDO (XV-XIX secolo)

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Dopo circa una trentina d’anni dalla scoperta delle Americhe da parte di Colombo, la presenza europea nel nuovo mondo si limitava sostanzialmente alle sole isole caraibiche ed era concentrata soprattutto nella ricerca dell’oro; spietato era lo sfruttamento della popolazione indigena, in poco tempo ridotta ai minimi termini dagli stenti e dalle malattie.

Fu solo a partire dal 1517 che iniziò un processo di esplorazione della terraferma, che portò al contatto con le popolazioni indigene. Protagonisti di queste avanzate furono i Conquistadores che, tra il 1519 e il 1544, diedero vita a un processo di conquista degli imperi locali, portando alla nascita di reami e vicereami spagnoli tra cui quello del Perù e della nuova Spagna.


Nel corso del Cinquecento, la colonizzazione spagnola si estese verso nord, fino a comprendere la California e la Florida, e a sud nel continente sudamericano, dove il limite all’espansione fu costituito dalla Foresta Amazzonica. L’immigrazione dall’Europa, principalmente dalla Castiglia, dovette aggirarsi attorno alle 220.000 persone nei primi tre quarti del XVI secolo, in stragrande maggioranza maschi, tra qui almeno 30.000 schiavi africani. Grande sviluppo ebbe fin da subito il fenomeno del meticciato, l’unione tra uomini e donne di “razze” differenti.
Tra gli strumenti della colonizzazione è caratteristico, oltre alla fondazione di nuove città, il fenomeno dell’encomienda. Questo consisteva nell’assegnazione a un conquistador o a un colono spagnolo una circoscrizione territoriale, al cui interno, pure senza esser proprietari del suono, avevano il diritto di esigere determinati tributi e prestazioni di lavoro dagli indigeni. La giurisdizione cittadina si estendeva sul territorio circostante, chiamato il termino, spesso diviso fra i cittadini.

L’encomienda divenne ben presto la causa di uno sfruttamento indiscriminato del lavoro indigeno, nonostante la presenza di norme legislative costruite ad hoc per evitare queste situazioni.

Sotto il profilo amministrativo i Vicereami di Nuova Spagna e Perù erano divisi in province. Viceré, i funzionari, i giudici e i vescovi venivano nominati dal re su proposta del consiglio delle Indie, un organo creato per sovrintendere la direzione dei territori d’oltreoceano. Nel complesso si può dire che la corona di Spagna riuscì a svolgere una buona azione di controllo sulle società coloniali e di moderazione dei molteplici soprusi che la caratterizzavano, grazie alla costante applicazione di nuove leggi mirate al mantenimento degli equilibri politico-sociali.

Importante fu anche il ruolo ricoperto dagli ordini ecclesiastici regolari, tra cui quello dei Gesuiti, per quanto riguarda il processo di evangelizzazione degli indigeni ma soprattutto per combattere e denunciare le peggiori forme di maltrattamento e sopruso. Per quanto riguarda gli aspetti economici della colonizzazione bisogna distinguere due fasi di sviluppo differenti. Nelle isole caraibiche, dopo la prima fase di ricerca all’oro, si iniziò a coltivare la canna da zucchero e, data la rapida estinzione della popolazione indigena, fu necessario importare quantità crescenti di schiavi africani. Anche sul continente americano si assistette alla diminuzione della popolazione locale e all’importazione di nuove specie di animali e vegetali che portarono ben presto a profonde modificazioni del tessuto economico. Accanto al mais si cominciò a coltivare il frumento, inserendo in Perù anche l’olivo e la vite. Si moltiplicarono soprattutto le greggi di pecore e le mandrie di buoi e di cavalli, dando origine a una locale industria laniera e alla costituzione di grandi Raunchous, tenute dedite soprattutto all’allevamento.

In Messico e in Perù, invece, il sistema economico si sviluppò prevalentemente sull’estrazione mineraria d’argento, che favorì un rapidissimo incremento di materiali che venivano esportati in Spagna: a Siviglia l’argento importato dalle colonie americane giunse a superare largamente i 2000 quintali annui dopo il 1580. L’afflusso di metalli preziosi dalle Americhe era considerato la causa fondamentale della cosiddetta rivoluzione dei prezzi cioè della tendenza inflazionistica; in realtà l’argento americano ha certo accentuato il rialzo dei prezzi ma nel lungo periodo non superò il tasso medio del 2% annuo.

Non fu solo la vita economica a essere influenzata, ma anche le abitudini alimentari e la vita sociale: pensiamo ad esempio all’importanza centrale che nei consumi popolari assumeranno il mais, la patata e il pomodoro oppure alla diffusione dello zucchero, disponibile solo In pochissime quantità fino al 500, ma anche al caffè, il tè, il tabacco e il cacao, merci un tempo molto rare ma ora molto più facilmente reperibili grazie all’ afflusso proveniente dalle colonie.

L’aumento dei rapporti economici, alimentari e sociali con il nuovo mondo favorirono anche un ampliamento delle conoscenze geografiche e scientifiche del mondo europeo e soprattutto la formazione e la definizione di un’identità puramente Europea, completamente differente rispetto a quella africana e americana. Grazie alla scoperta dell’America tramontano anche tutti quei ‘miti degli antichi’, leggende legate all’organizzazione dei territori non ancora scoperti o poco conosciuti da parte della società europea.

FONTI BIBLIOGRAFICHE:

  • L.N. MCALISTER, Dalla scoperta alla conquista. Spagna e Portogallo nel Nuovo Mondo,1492-1700, Il Mulino, 1986
  • J.H. ELLIOT, Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola, 1492-1830, Einaudi, Torino, 2010

IL BRANDENBURGO-PRUSSIA NELLA GUERRA DEI TRENT’ANNI (1618-48)

Tempo di lettura: 3 minuti

PROTAGONISTI:

  • Ducato di Brandeburgo-Prussia : Alberto di Hohenzollern, Giovanni Sigismondo Hohenzollern, Giorgio Guglielmo di Hohenzollern, Federico Guglielmo I Hohenzollern.
  • Regno di Svezia, Confederazione polacco-lituana.

INTRODUZIONE: Gli Hohenzollern e l’acquisizione della Prussia Ducale

Gli Hohenzollern, originari della Germania meridionale, erano divenuti signori della Prussia Ducale dal 1525, quando il territorio comprendente le città di Instenburg, Memel e la capitale Königsberg era passato a Alberto di Hohenzollern, che ricevette l’investitura dallo zio materno Sigismondo I di Polonia. Presentatosi e reso omaggio al sovrano polacco, Alberto ne divenne vassallo e ottenne per sé il titolo di Duca di Prussia, pur mantenendo la fede luterana, che lo aveva costretto a lasciare l’Ordine e che presto si diffuse nella regione. Il Re di Polonia, invece, manteneva per sé i domini sulla Prussia Reale, la quale includeva Danzica e Allenstein.

Il Duca di Prussia era una carica ereditaria, e alla morte per pestilenza di Alberto (1568) l’eredità passò al figlio Alberto Federico. Il nuovo signore si ritrovò contro il clero prussiano e i nobili locali, fino a cadere in depressione appena tre anni dopo l’ascesa e a mostrare segni di instabilità mentale poco tempo dopo. Fu subito nominato un reggente il genero del Duca, Gioacchino Federico di Hohenzollern, Principe Elettore del Brandeburgo, a cui succedette il figlio Giovanni Sigismondo nel 1608. Dieci anni dopo Alberto Federico morì, e il ramo cadetto degli Hohenzollern prussiani si estinse. Il Ducato finì nelle mani degli Hohenzollern brandeburghesi, e quindi a Giovanni Sigismondo, che, però, già compromesso di salute morì l’anno successivo, decretando l’unione tra i Ducati del Brandeburgo e di Prussia.

SVOLGIMENTO: La Guerra dei Trent’anni in Brandeburgo-Prussia

Nell’anno in cui Giovanni Sigismondo trapassò, scoppiò la Guerra dei Trent’anni. Inizialmente nato come volontà degli Asburgo di rafforzare il proprio dominio in Boemia, il conflitto si trasformò presto in una guerra tra cattolici, capeggiati dall’Austria e dalla Spagna asburgiche, e protestanti, supportati dalla potenza francese, cattolica ma nemica degli Asburgo, e dalla Svezia di Gustavo II Adolfo. Fiero luterano, il Re svedese concentrò le sue forze nella lotta agli Asburgo anche contro la cattolica Polonia, la quale, tuttavia, era al momento neutrale nel conflitto, appena uscita dopo una dura guerra contro lo Zarato russo. Per Gustavo Adolfo l’indebolimento della Confederazione era vitale per l’ampliamento dei possedimenti svedesi, che vedevano nelle coste baltiche della Pomerania e della Livonia una fruttuosa testa di ponte.

Nel luglio 1626, Gustavo Adolfo attaccò la Prussia Ducale, e da lì occupò il porto di Danzica, imponendo un blocco navale su tutto il Baltico centro-occidentale, con una tassazione del 30% sui beni trasportati per nave al momento dell’attracco. Il Parlamento polacco comprese subito la gravità della situazione, ma non riuscì a sconfiggere le truppe svedesi nelle battaglie terrestri; a questo si aggiunse l’invasione dello Zarato sui territori orientali della Confederazione. Nel mentre, Gustavo Adolfo occupò il Ducato di Pomerania, dove l’ultimo signore era morto senza lasciare eredi.

Il Brandenburgo-Prussia pagò molto per la sua neutralità. Le due anime del Ducato subirono saccheggi da entrambi gli schieramenti. Inoltre, il Principe Elettore Giorgio Guglielmo, figlio di Giovanni Sigismondo, non si dimostrò in grado di compensare adeguatamente le truppe, e le diserzioni resero l’esercito ducale ingovernabile. Il Duca fu costretto a unirsi alla causa svedese e mandò i pochi contingenti rimastigli. Ma alla morte di Gustavo Adolfo nella Battaglia di Lützen (1632), Giorgio Guglielmo si impegnò a fare la pace con l’Austria, e il Brandeburgo-Prussia ridivenne nemico degli svedesi.

CONCLUSIONE: Spartizione della Pomerania e Pace di Vestfalia

Nel 1640 al Duca succedette il primogenito Federico Guglielmo, che riuscì l’anno successivo a stipulare una tregua con gli svedesi e a farsi riconoscere Duca di Prussia dal Re di Polonia. Nei cinque anni seguenti, Federico Guglielmò invitò nel Ducato coloni olandesi, i quali portarono nuove tecniche agricole e commerciali che risollevarono l’economia del Paese. Ai negoziati di pace a Münster e Osnabrück, Federico ottenne la Pomerania orientale, mentre la parte più occidentale, con l’ex capitale pomerano Stettino, spettò alla Svezia. A questo si aggiunse l’acquisizione dei monasteri di Halberstadt e Minden, nonché la concessione dei territori dell’arcidiocesi di Magdeburgo alla morte del signore locale, avvenuta alcuni decenni più tardi.

BIBLIOGRAFIA:

  • CLARK Christopher, The Iron Kingdom: The Rise and Downfall of Prussia 1600-1947, Penguin, Londra, 2007.
  • STONE Daniel, The Polish-Lithuanian State, 1386-1795, University of Washington Press, Washington (D.C.), 2001.